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 2021  novembre 25 Giovedì calendario

1492 ragioni per cui assistiamo alla perdita di senso del ridicolo

L’organizzazione della marcia delle donne anti Trump si è scusata con gli iscritti per aver comunicato che la media delle donazioni ricevute era di 14 dollari e 92 centesimi, numeri che letti di fila coincidono con la data della scoperta dell’America, considerata un evento funesto dai fuori di zucca americani [Soncini, Linkiesta].

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Un’amica mi ha regalato una fascia per tirarsi indietro i capelli quando ci si strucca. È rosa, e ha due orecchie da animaletto. Mi ci sono fatta una foto che ho messo nelle storie di Instagram, perché a cosa serve una funzione che dopo ventiquattr’ore fa sparire le prove, se non a pubblicare foto in cui sembri persino più scema del solito.
Qualcuno mi ha scritto: ma è un pussy hat. L’ho detto alla mia amica, che fa regali scemi ma non è così scema da seguire tutte le polemiche identitariste americane: non sapeva cosa fosse un pussy hat. Le ho dovuto quindi spiegare di quando, a Trump appena insediato, i militanti di questo tempo – con la loro vocazione a buttare in vacca qualunque istanza – avevano ben pensato di organizzare una marcia delle donne su Washington. Voi avete eletto un presidente che, nei suoi momenti migliori, diceva di prendere le donne per la passera, e noi protestiamo. («Nei suoi momenti migliori» è antifrastica; sta per: pensa i peggiori. Questa parentesi naturalmente non servirà a non fare di quella frase un’istantanea da commentare con «ve l’avevo detto: a Soncini piacciono gli stupratori»).
Solo che, siccome siamo appunto un tempo senza senso del testo né del contesto né del tono né del ridicolo, le partecipanti alla marcia avevano in testa dei cappellini rosa, fatti all’uncinetto, che rappresentavano, rido e piango solo a trascriverlo, una passera. Sì, quella roba di appropriarsi dell’insulto perché diventi rivendicazione, della passera perché diventi orgoglio, della rava perché diventi fava. I cappellini rosa. Pensavo fossero tornate tutte a far l’uncinetto, che mi sembra già intellettualmente impegnativo. E invece.
E invece Women’s March – l’organizzazione del corteo di donne in cappellino rosa – trentasei ore fa è ricomparsa nell’orizzonte delle debosciate giornate d’un occidente cui la lavatrice ha liberato troppo tempo. Invece di lavare i panni al fiume, loro hanno scritto (e noi abbiamo letto, caricando l’asciugatrice) un tweet che faceva così: «Ci profondiamo in scuse per l’email inviata oggi. 14,92 dollari era in effetti la media delle donazioni ricevute questa settimana. Ma è stata una trascuratezza da parte nostra non renderci conto che la cifra evocava un anno di colonizzazione, conquista, e genocidio della popolazione indigena, specialmente subito prima del Ringraziamento».
Vi traduco la traduzione, perché più d’una persona ieri, visto il tweet, mi ha detto d’averci messo un po’ a capirlo (a volte il ridicolo è più ostico di Musil in tedesco).
Hanno mandato alle loro iscritte (non so quante siano quelle alla newsletter; su Instagram le seguono un milione e quattrocentomila persone, novecentomila su Facebook, seicentomila su Twitter) un’email che, tra le altre cose, diceva quant’era la cifra media delle donazioni ricevute in una settimana. E quella media, letta di fila dollari e centesimi era, ma tu pensa a volte il diavolo che ci mette la coda, l’anno di Cristoforo Colombo.
Quello senza il quale non esisterebbero Twitter, i cappellini all’uncinetto, gli account YouTube sui quali abbiamo visto Trump vantarsi della sua presa sulle passere, il MeToo, i premi Oscar con le quote razziali, gli abiti monospalla disegnati dall’ex moglie di Harvey Weinstein, il premio Pulitzer Nikole-Hannah Jones, Jonathan Franzen che non riesce più a guardare i quadri di Caravaggio da quando ha scoperto che era un assassino, Sally Hemings (la schiava che fu amante di Thomas Jefferson), la commissione che ha votato per rimuovere dal palazzo municipale di New York la statua di Thomas Jefferson, le canzoni di Springsteen, i libri di Obama, i film di Woody Allen e quelli di Nora Ephron, gli spettacoli di Mike Nichols e quelli di Beyoncé. Il 1492: l’anno senza il quale non esisterebbero gli Stati Uniti d’America.
(Certo, ci resterebbero Joni Mitchell e Leonard Cohen: Dio salvi il Canada).
M’è già capitato di scrivere che ormai metà del tempo in cui si leggono le stronzate del presente lo si passa a cercare di distinguere tra realtà e parodia; quando ho visto il tweet sui 14 dollari e 92 centesimi poco rispettosi delle vite indigene, ho aspettato il «v’abbiamo raccontato un sacco de fregnacce» con cui la Women’s March svelava d’aspirare a Manuel Fantoni. Ma invece sono passate, mentre scrivo, ventiquattr’ore, e ancora nessuna smentita, nessun segno di sarcasmo non colto dalle masse pavloviane, nessuna pernacchia.
Certo, non è il maggior problema del maccartismo social, la mancanza di senso del ridicolo: quella di senso del contesto è più grave e – confesso che mai me lo sarei aspettata – ne ho trovato la miglior sintesi in una conversazione tra Roberto Saviano e Giovanni Floris. Mentre parlavano d’un meccanismo – quello della gogna, che sia a mezzo stampa o social o capriccio giudiziario – in cui si costringe «la persona alla difesa, anche se non ha commesso né un reato né una scorrettezza», hanno spiegato in due battute quel che in molti si sgolano da anni a spiegare in saggi, inchieste, romanzi, articoli, documentari.
«Una vita è fatta di contraddizioni, che non sono reati», ha detto Saviano. «Di cose di cui ti vergogni tu stesso, magari, ma non c’è bisogno di risponderne agli altri», ha risposto Floris. Bisogna essere conseguenti: se non vogliamo la gogna per la cattiveria a uso privato, non la vogliamo neanche per la bontà a uso sospensione del senso del ridicolo.
Quindi ho deciso di – per ora – non accanirmi; aspetterò, prima di deliberare che alla Women’s March siano una banda di rincoglionite. Aspetterò fin quando non si scuseranno per aver ricevuto donazioni medie di 16 dollari e 19 centesimi: 1619 è l’anno in cui, secondo Nikole Hannah-Jones, è stata davvero fondata l’America, con l’arrivo della prima nave di schiavi. La giornalista (la militante? Ora non cavilliamo) del New York Times ci ha vinto il Pulitzer, con l’inserto intitolato 1619: mica vorranno farne un numero positivo, quelle coi cappelli all’uncinetto, brutte superficiali.