il Giornale, 24 novembre 2021
Una notte nella suite da 1400 euro a notte di Freddie Mercury a Montreux
Il 24 novembre di trent’anni fa è morto Freddie Mercury. Non so se mi spiego. Io e Emilio Pappagallo, il geniale direttore di Radio Rock e mio migliore amico, ci troviamo a Montreux, in Svizzera, al Fairmont Le Montreux Palace, nella suite dove Freddie Mercury ha trascorso gli ultimi mesi di vita, che gli svizzeri hanno chiamato Freddie Mercury Suite, e costa 1400 euro a notte (paga comunque tutto Emilio, perché è il mio migliore amico e guadagna molto più di me).
Solo che siccome sono svizzeri ci hanno deluso subito, perché appena entrati nella mitica suite ci sono venuti dei dubbi, tutto troppo nuovo, e abbiamo chiamato la reception per chiedere: «Scusate, ma è rimasto tutto uguale da quando c’era Freddie?», e loro «non vi preoccupate, è stato tutto rinnovato, non c’è rimasto niente». Non vi preoccupate? Questi sono pazzi. In pratica non c’è niente che possiamo toccare che abbia toccato Freddie. «Ma il pavimento almeno, sarà quello?». «Mah». Comunque siamo usciti sul balcone, per guardare il lago da dove lo guardava Freddie, appoggiandoci alla balaustra dove si appoggiava Freddie, e non abbiamo chiamato la reception per paura ci dicessero che avevano rifatto pure il balcone. È come andare a vedere la camera di Proust e sentire il custode che ti rassicura: «Non si preoccupi, quei vecchi mobili li abbiamo buttati, è tutta rifatta con mobili Ikea».
Qui, in questo paesino svizzero pieno di svizzeri, è successo tutto ciò che non avete visto nel film Bohemian Rhapsody, per noi freddiemercuriani il più brutto film che potessero fare, tant’è che io non posso vedere più neppure Rami Malek, torni a fare Mr. Robot che è meglio. Con Emilio, speaker liberale che dirige una radio comunista (sentite il suo morning show, non ci sono analoghi nelle radio italiane, e tra l’altro oggi tutto il palinsesto è dedicato a Freddie, lo ha ordinato Emilio ai comunisti), ma che i comunisti non possono licenziare perché la dirige lui, li sottomette, li bullizza con la sua intelligenza.
Siamo andati a vedere la statua di bronzo di Freddie, bruttissima (ma esistono statue di bronzo belle?), e anche la sala di registrazione dove sono stati registrati gli ultimi due album, non ci crederete, tutta ricostruita anche quella, perfino il mixer, cosa avranno nella testa questi qui (e pure Roger Taylor e Brian May, che da trent’anni continuano a suonare come Queen arruolando questo o quell’altro cantante, non avendo capito che i Queen sono finiti il 24 novembre del 1991; John Deacon lo ha capito, e si è ritirato, unico intelligente, e infatti gli altri Queen dicono che è impazzito).
Qui a Montreux c’è pure una placca d’oro per terra dove Freddie, malato, ha registrato le ultime canzoni, come The show must go on e perfino tutte quelle uscite postume, registrate solo usando la drum machine («potete salire sulla placca», ma se lui non ci è mai salito, l’avete messa voi, maledizione). Mentre ci ubriachiamo in un baretto svizzero pensando a Freddie, cerco di prendere appunti su cosa scrivere, ma cosa posso scrivere in un breve racconto commemorativo? Chi è per me Freddie Mercury? Per me l’unica divinità non inventata dall’uomo, e lo amo da quando avevo sedici anni, è l’unico love of my life. Tant’è che con Giulia Bignami sto scrivendo il mio ultimo romanzo, Volevo essere Freddie Mercury, che uscirà a fine anno prossimo con La nave di Teseo. Ultimo nel senso che non ne scriverò altri. Il mio romanzo più superficiale e più profondo.
È per questo in fondo che sono diventato uno scrittore, perché Freddie Mercury nella musica c’era già, io nella letteratura no. Freddie aveva la più bella voce che io abbia mai sentito, i più begli occhi, i più bei denti, i più bei baffi, il taglio di capelli corti più bello (dopo il 1986), il più bel corpo, un carisma unico, e perfino in punto di morte, scarnificato, è riuscito a restare leggendario. Guardate i video di I’m going slightly mad e These are the days of our life per rendervene conto. D’altra parte lui stesso diceva: «Non voglio essere una rockstar, diventerò una leggenda». Paolo Bonolis ha raccontato che una volta a Londra Freddie ci provò con lui e lui non c’è stato perché era etero, scemo pure lui, come uno svizzero. Come fai a non andare con Freddie, qualsiasi orientamento sessuale tu abbia? Meritava di restare a Bim Bum Bam tutta la vita.
Freddie rimase qui fino a giugno 1991, poi tornò a Garden Lodge, la sua casa londinese, e smise di prendere i farmaci tranne gli antidolorifici, perché aveva capito che era finita. Un minuscolo virus, l’Hiv, ha ucciso lui, Freddie Mercury. Ne ha uccisi anche tanti altri, ma degli altri non mi frega niente. Scoprì di essere malato nel 1987 (non nel 1985, anno in cui si conclude il bruttissimo film, dove Freddie sembra serioso come Mick Jagger, mentre era spiritosissimo), e da quel giorno ha dato fondo a tutto se stesso incidendo canzoni da brivido fino all’ultimo, due album incredibili The miracle (1989) e Innuendo (1991) e appunto le canzoni uscite postume.
«Sì ma cosa scrivi?» mi chiede Emilio. Non lo so. Guardando il lago di Ginevra cerco di pensare agli ultimi pensieri di Freddie, agli ultimi pensieri di un dio. È difficile pensare a cosa pensa un dio quando sta morendo. Neppure un dio sarà felice di morire. Sebbene Freddie abbia cantato la colonna sonora di Highlander, l’ultimo immortale, dove c’è la canzone Who wants to live forever, che dice «Who wants to live forever when love must die».
Ma Emilio mi suggerisce di risentire l’ultima canzone rimasta incompiuta, uscita postuma, l’ultima strofa incisa, prima che da Montreux tornasse a Londra per morire. E l’ultima strofa incisa dal dio, dopo un acuto incredibile e straziante, dice così: «Mama please, let me back inside». Ecco cosa pensa un dio quando sta morendo. Ma con la forza di cantarlo come solo Freddie sapeva fare. Mamma, ti prego, riprendimi dentro. Io piango, anche perché l’alcol mi fa piangere facilmente, poi guardo Emilio e gli chiedo: «Perché non piangi?». Lui fa: «Perché ci sei già tu che piangi». Il solito stronzo.