Il Messaggero, 24 novembre 2021
Intervista a Ottavio Bianchi. Parla di Maradona
«Gli dicevo: Diego adesso basta allenamento, vatti a fare la doccia, siamo qui da due ore. E lui niente. Dicevano che Diego si allenasse poco e male: frottole. Semmai il contrario. Non voleva uscire mai dal campo, si divertiva troppo. E pur di non tornare negli spogliatoi, si metteva in porta a parare. Anche se pioveva a dirotto e c’era tutto fango, anzi meglio, si tuffava con più gioia: me lo voglio ricordare così, allegro, che si rotola nelle pozzanghere mentre è quasi buio, e ride felice col sua palla, almeno lì lontano dalle pressioni mostruose che aveva. Il mio povero Diego».
Ottavio Bianchi, domani è un anno dalla scomparsa di Diego Maradona, che lei ha allenato per quattro anni al Napoli: pensa spesso a lui?
«Diego è dentro di me. Da allenatore mi sono affezionato a tutti i miei giocatori, anche se non lo davo a vedere. Quando hai vissuto e lavorato con delle persone, e gli hai voluto bene perché erano i tuoi ragazzi, li osservi anche nel prosieguo delle loro vite, anche se io sono rimasto sempre defilato. Sei felice se stanno bene, soffri se hanno problemi. Ogni volta che Diego appariva, e accadeva spesso perché era uno degli uomini più noti al mondo, mi dispiaceva per le sue condizioni. Allora preferivo pensare ai ricordi belli, che sono una montagna. Per me era un ragazzo, uno dei miei ragazzi, ed è rimasto tale».
Ha visto, anche da defunto continua il caos intorno a lui, addirittura l’avrebbero sepolto senza il cuore nel petto
«Guardi non mi dica queste cose, mi fanno male e preferisco non saperle. Ma è la conseguenza della sua vita, era più forte di lui spingere le cose al massimo. Una volta me lo disse pure, nel mio ultimo anno al Napoli. Avevo iniziato a sentire voci allarmanti sulla sua vita privata, poi si sarebbero rivelate purtroppo vere. Avevo un bel rapporto col suo preparatore Signorini, con lui provai a parlare a Diego, erano colloqui serrati, tentavo di dissuaderlo, di dirgli che se avesse percorso quella strada poi avrebbe avuto tanti problemi nella vita Finché un giorno, senza guardarmi negli occhi e mangiandosi le unghie, mi disse a bassa voce: mister, lei ha ragione, ma io non posso che vivere così, devo avere sempre il piede sull’acceleratore. Mi sentii enormemente solo e sfiduciato, capii che non contavo più niente e sarei dovuto rimanere al Napoli ad assistere allo scempio, così decisi di andarmene. Da Napoli e da Diego».
Lei in quegli anni passava un po’ per il sergente di ferro che doveva riequilibrare un ambiente pieno di eccessi: era così?
«Non mi piace la definizione di sergente di ferro, mi sono sempre messo in discussione e mai ho pensato di essere il depositario del verbo, ma pretendevo che ci fosse il rispetto dei ruoli, ero un po’ maniaco di questa cosa, dicevano che esagerassi e a volte era vero, sì. Ma accettai la sfida di Napoli, dove mi chiamò Allodi, anche se avevo perplessità: sapevo di andare in un ambiente in cui era difficile vincere, per farlo bisognava imporre regole severe. Ma ho sempre rispettato tutti, quella è la prima cosa: da giocatore, non chiamavo l’allenatore mister, ma signor.... Poi delle maldicenze non mi importava, anzi mi ispirai proprio alla saggezza e alla cultura dei napoletani, che sono magnifici. Una volta, quando San Gennaro fu abbassato di rango dalla Chiesa a santo di serie B, scrissero su uno striscione in piazza Plebiscito: San Gennà: futtetenne. Io facevo proprio così. E non ho mai avuto paura di niente, figurarsi: ho fatto tutta la carriera da giocatore professionista senza i legamenti crociati delle due ginocchia, si vede che sapevo soffrire, no?».
Mister, lei è un privilegiato: si è visto sfilare davanti i più grandi della storia del calcio.
«Ho giocato con Sivori, che prima delle partite aveva conati di vomito a secco per la tensione, e ai compagni che lo prendevano in giro disse un giorno: Quando uscite di qui siete persone normali, non vi fila nessuno: io invece sono Sivori e ho delle responsabilità. Ho giocato con Altafini, Zoff, Hamrin e Sormani nel Napoli, erano i tempi di Riva e Rivera più gli altri, ho marcato Pelé Ho allenato i migliori, da Diego a Careca, a Voeller, Aldair, sono stato fortunato. Maradona aveva pressioni insostenibili, pazzesche è dir poco, nemmeno una persona con una grande preparazione culturale le avrebbe sopportate. Ma ho avuto la fortuna di godermelo, e me lo ricordo così, nella sua genuinità. Con me e con i suoi compagni era un uomo eccezionale, spontaneo. Bastava dargli il giocattolo, la palla, e andava in estasi, era pura gioia. Non gli ho mai, dico mai, sentito rimproverare un compagno, nemmeno le riserve, mai ostentava la sua superiorità che era enorme. Era un genio e un uomo semplice. E si allenava da matti, perché più uno è un asso più lavora, come i grandi musicisti. Voi avete visto i suoi gol celebri, da metà campo o su punizione, di mano ma non sapete che non erano gesti estemporanei, erano cose che noi vedevamo tutti i giorni, il colpo a effetto non era casuale ma frutto del lavoro. E ci trascinò a quelle vittorie indimenticabili, trovando anche una squadra disposta a seguirlo, con fame di vincere. E con un allenatore, io, che per 4 anni visse recluso e isolato in hotel, e mangiava in due ristoranti al massimo, spesso coi camerieri, per non essere influenzato dalle passioni della città. Andò bene, direi. Anche perché c’era il mio Diego».