Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2021
Intervista a Giorgio Sacerdoti. Parla del Wto
Arbitro internazionale e professore emerito della Bocconi, Giorgio Sacerdoti è stato membro e presidente dell’organo d’appello del sistema di soluzione delle dispute commerciali della Wto, la massima istanza in tema di dazi, dumping, barriere agli scambi. In questa veste, ha partecipato all’esame di oltre cinquanta casi, compreso il primo sollevato contro la Cina.
Il 30 novembre si apre a Ginevra la Conferenza dell’Organizzazione mondiale del commercio, la Wto. Cosa possiamo aspettarci?
Sarebbe già importante se ci fosse un sostegno al multilateralismo e all’attività della Wto, il clima mi sembra più disteso dopo il G20 di Roma e il colloquio tra Joe Biden e Xi Jinping. Di accordi sul tappeto, invece, sembrerebbe maturo solo quello per mettere fine ai sussidi dannosi alla pesca, che contribuiscono alla distruzione delle riserve ittiche mondiali. Di recente, gli Stati Uniti hanno però chiesto di inserire standard contro il lavoro forzato sui pescherecci. Istanza che non piace a quei Paesi che si sentono presi di mira.
Uno dei temi centrali sarà il contrasto alla pandemia, si aspetta risultati concreti?
Potrebbe arrivare una dichiarazione su una cooperazione positiva, per non rifugiarsi più nelle misure restrittive all’export di medicinali e materiali, come si è fatto nella prima fase della pandemia.
E sulla sospensione dei brevetti sui vaccini?
Temo non ci saranno grandi progressi. I Paesi di origine di Big Pharma sottolineano che la protezione brevettuale non è di per sé un ostacolo alla diffusione dei vaccini nei Paesi poveri, che è piuttosto strozzata da carenze logistiche e organizzative. L’argomento è fondato, ma questa posizione sarebbe più credibile se i Paesi ricchi finanziassero massicciamente le campagne vaccinali in quelli in via di sviluppo, dopo essersi per di più accaparrati gran parte delle forniture iniziali per le proprie popolazioni.
Si discuterà anche di e-commerce: si va verso l’ennesima proroga della moratoria sui dazi?
Quella moratoria viene rinnovata ogni due anni, dalla fine degli anni 90. Ci sono però sempre le resistenze di Paesi, come l’India, che temono di perdere entrate. Il programma di lavoro sul digital trading riguarda molto altro, ma non mi sembra in dirittura d’arrivo. Se ci sarà un appoggio politico generalizzato ad andare avanti e a concludere in tempi relativamente brevi, sarebbe un segnale importante. La questione è se la Wto è in grado di adeguarsi alle nuove problematiche: una è la digitalizzazione, l’altra è il cambiamento climatico.
E arriviamo al progetto Ue di dazio all’import di merci fabbricate con processi inquinanti. Rischia di essere visto come una misura protezionistica?
Il Carbon Border Adjustment Mechanism pone interrogativi complessi. C’è da capire se è una misura temporanea volta a dissuadere produzioni inquinanti o se prefigura nuovi protezionismi in virtù della tutela dell’ambiente. Potrebbero essere necessarie nuove regole o nuove interpretazioni per distinguere tra produzioni ecologiche e non, senza violare il principio di non discriminazione tra prodotti finali identici. Inoltre, se fosse davvero uno strumento per indurre i Paesi terzi a comportamenti più virtuosi, il gettito non dovrebbe andare nel bilancio generale della Ue, ma in un fondo per finanziare la transizione energetica, soprattutto nei Paesi più poveri.
Il tribunale della Wto è paralizzato dagli Usa, che ne boicottano l’organo di appello: è una struttura cruciale per il rispetto delle regole sul commercio. Si aspetta progressi?
L’amministrazione Biden non ha fatto grandi passi avanti, ma non è negativa come quella Trump. Lega la questione alla riforma della Wto. I principali partner, specie la Ue, sono prudenti e non vogliono un accordo che depotenzi il sistema. In generale, gli Stati Uniti continuano con il loro approccio à la carte: scelgono i dossier sui quali negoziare, per esempio su acciaio e alluminio con l’Unione Europea o la tregua siglata dalla Cina. Questo gli ha permesso di ottenere vantaggi selettivi grazie al peso negoziale della loro economia. Ma così non si risolve il problema di rispetto delle regole.
Il nuovo clima tra Usa e Ue può aiutare a superare le spinte protezionistiche?
Bisogna puntare a salvare il livello esistente di cooperazione, senza continuare ad abusare dell’eccezione della sicurezza nazionale per giustificare misure restrittive su commercio e investimenti. Mi sembra però che l’esempio Usa, anche con il Buy American di Biden, stia facendo scuola e sempre più Paesi se ne servano per rafforzare, anche attraverso sovvenzioni, le produzioni nazionali. Sta avvenendo, ad esempio, sui chip e sulle batterie per le auto elettriche. Fino a qualche anno fa, liberalizzazione degli scambi e riduzione delle barriere all’entrata sui mercati esteri e alla concorrenza internazionale erano obiettivi largamente condivisi. Ora gli impegni di apertura dei mercati sembrano essere considerati un ostacolo alla mano libera che i Governi, per buone o meno buone ragioni, vogliono avere per sostenere e proteggere le produzioni nazionali. Non è una prospettiva buona per l’economia italiana, che si fonda sul ruolo trainante dell’export.