Corriere della Sera, 24 novembre 2021
Sulla serie “Sarah. La ragazza di Avetrana”
Sarah. La ragazza di Avetrana è la nuova docu-serie Sky Original prodotta da Groenlandia e tratta dall’omonimo libro scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (Fandango Libri, 2020) che ricostruisce la vicenda, non solo dal punto di vista giudiziario ma anche mediatico, concentrandosi sulla sua spettacolarizzazione. È il 26 agosto del 2010 quando Sarah esce di casa per non farci più ritorno. La denuncia della scomparsa da parte della famiglia finisce in tragedia dopo quarantadue giorni di ricerche. Intanto Avetrana si trasforma in un set a cielo aperto la cui svolta è la rivelazione in diretta tv a Concetta Serrano della sorte della figlia. Le quattro puntate non cancellano quello che è stato il primo reality show collettivo dell’orrore, cui molte trasmissioni hanno alacremente collaborato, il «The Sarah Scazzi Horror Picture Show», una delle pagine più oscure della tv italiana.
Certo, conduttori, opinionisti e audience senza scrupoli non aspettano altro: il delitto, il clima torbido, i parenti perversi, il fratello che ogni volta si aggiustava il capellino prima di apparire. Più il materiale è fragile più è facile costruire lo show. Ma se è vero che i media sono un nuovo ecosistema, allora è anche vero che psicologia dei singoli e cultura della comunità giocano un ruolo fondamentale. Anche nell’habitat televisivo, come nella vita, esistono discriminazioni sociali, culturali, linguistiche. E sappiamo anche che tutto è iniziato con Vermicino. Serializzare il dramma, come hanno fatto molti programmi, significa non soltanto riproporre in continuazione un episodio di cronaca nera particolarmente doloroso, significa anche trasformare l’angoscia in un format. Non è un problema morale, è innanzitutto un problema linguistico. Forse non era così importante ricostruire nei dettagli il caso criminale, forse bisognava avere il coraggio di squadernare il caso mediatico.