Corriere della Sera, 24 novembre 2021
L’epistolario-mondo di Pasolini
L’ultima delle Lettere di Pasolini curate da Antonella Giordano risale, giorno più giorno meno, alla metà di ottobre del 1975. L’imminenza della morte all’Idroscalo di Ostia, nella notte tra il 1° e il 2 novembre, carica queste poche righe scritte di fretta a Graziella Chiarcossi (si tratta di un biglietto, più che di una lettera vera e propria) di una solennità del tutto involontaria e accidentale.
È facile immaginare che Pasolini, che rincasava d’abitudine alle prime luci dell’alba, abbia comunicato alla giovane cugina, che viveva in casa sua, il programma di una normale giornata di lavoro e di incontri. Prevede «una pioggia di telefonate» in arrivo nel primo pomeriggio: ha promesso un incontro a varie persone, il figlio di un’amica, il poeta Ennio Cavalli, e chiede a Graziella di distribuire gli appuntamenti in modo da concedere a ciascuno un tempo adeguato («trequarti d’ora uno dall’altro»).
Verso sera, poi, com’è in effetti accaduto, vorrebbe andare a Chia, il paese in provincia di Viterbo dove ha fatto restaurare una torre medievale usata come casa di campagna, assieme al «fotografo». Infine Pasolini raccomanda alla cugina la copia (la troverà «sulla scrivania») di un testo scritto per una mostra di Andy Warhol al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, inaugurata il 26 ottobre. Quanto al «fotografo», si tratta del compianto Dino Pedriali (morto lo scorso 11 novembre), allora venticinquenne, per il quale Pasolini posò prima a Sabaudia, e in un secondo momento, appunto, nella torre di Chia.
Questa serie di ritratti di Pedriali, e soprattutto la parte realizzata a Chia, che comprende dei nudi di straordinaria bellezza, non è solo una straziante testimonianza terminale (la morte era così prossima che Pasolini non poté mai vedere i rullini sviluppati). È probabile che, se fosse vissuto tanto da portare a termine l’impresa, queste foto sarebbero state risucchiate, assieme ad altri materiali figurativi, nel grande calderone di Petrolio, l’immensa opera-mondo in forma di «frammento» alla quale Pasolini lavorava alacremente a partire almeno dalla primavera del 1973.
Il rapido biglietto a Graziella Chiarcossi non è certo, dal punto di vista letterario, paragonabile ad altri dei trecento inediti che arricchiscono questa nuova edizione dell’epistolario di Pasolini, che esce più di trent’anni dopo quella curata per Einaudi da Nico Naldini, in due volumi pubblicati tra il 1986 e il 1988.
Se sono partito dalla fine, citando quelli che possono essere considerati dei minimi trucioli d’esistenza, resi drammatici e significativi solo dalla data, è perché l’imponente mole delle lettere scritte da Pasolini dal 1940 al 1975 rappresenta un accesso alla vita e all’opera vivido e sorprendente, non solo dal punto di vista dell’evoluzione del pensiero e dei legami intellettuali, ma anche da quello del tempo vissuto, con tutti i suoi dettagli più o meno significativi. Se ci pensiamo bene, Pasolini fu il più indefesso sperimentatore di generi letterari del Novecento italiano, e tutto quello che aveva imparato sulla scrittura riversò nel grandioso esperimento di Petrolio. Ma in questo così vasto e polimorfo universo di generi letterari latitano il concetto e la pratica del «diario». In questo Pasolini è l’esatto contrario di André Gide, che sembra aver trovato proprio nella forma aperta del diario il senso ultimo della sua opera e del suo stare al mondo.
Forse Pasolini non aveva tempo ed energie per trasformarsi nel cronista dei suoi giorni (oltre che un genere di scrittura, il diario è anche un rito, e in ultima analisi una forma di vita); probabilmente ci vedeva anche un residuo di anacronistico intimismo borghese. Ma basta che la scrittura diventi lo spazio di una relazione umana, con tutto il tasso di necessaria estroversione che comporta, ed ecco che Pasolini ci appare proprio per l’uomo che sembra essere stato: timido, capace di ascolto, generoso con qualunque interlocutore, da Maria Callas al più oscuro dei giovani poeti che gli chiedevano attenzione.
Il grande e ammiratissimo filologo Gianfranco Contini lo definì «esperto in umiltà», e non c’è libro di Pasolini che più di questa raccolta di lettere confermi la verità di queste esattissime parole. E il lavoro di Antonella Giordano, che con tanta abbondanza di materiale completa quello intrapreso da Nico Naldini, già al primo impatto ci sta davanti come una vera pietra miliare, non a caso ospitata nella prestigiosa collana ammiraglia di Garzanti, l’editore più importante in tutta l’avventura creativa di Pasolini.
Un libro insomma, con le sue millecinquecento pagine, che vale sicuramente la pena leggere da capo a fondo, ma destinato a innumerevoli consultazioni e ricerche, a partire dal copiosissimo indice dei nomi, impressionante fotografia del tessuto delle relazioni di questo grande artista. E se l’arco cronologico è molto lungo, una caratteristica generale di tutte queste lettere emerge fin da una prima considerazione a caldo. Il Pasolini epistolografo è, prima di tutto, un grande psicologo: si può dire che con ogni destinatario individui non solo gli argomenti adatti, ma anche il tono, il linguaggio adeguato a quel singolo essere umano.
Pescando quasi a caso, trovo tra gli inediti pagine impagabili in questo senso, come la baruffa epistolare con Elsa Morante che si lamentava di un ritardato pagamento della collaborazione al Vangelo secondo Matteo (solo Pasolini si sarebbe potuto permettere di sfottere la permalosa amica rinfacciandole il suo «buddismo»!); o le lettere a Contini in cui lo scrittore imita e parodizza il manierismo del maestro. Quella che emerge, in questo trascinante epistolario, è in definitiva la voce di Pasolini, che ci giunge come per magia intatta come nelle interviste registrate. Ed è tanto più autentica e fedele a se stessa, questa voce, tanto più capace, nel momento stesso in cui si articola, di definire perfettamente la fisionomia dell’interlocutore: che si tratti di una persona «importante», o del rompiscatole di turno da tenere a bada.