Linkiesta, 24 novembre 2021
Kevin Spacey e il costo della reputazione
La grande scusa – a noialtri che non siamo mai degli incapaci: se non facciamo carriera è perché siamo scomodi – la fornì Rhett Butler, quando la guerra civile non era ancora finita, ad Atlanta si raccoglievano fondi per l’esercito, le mogli donavano le fedi nuziali, e Rossella era in nero perché fresca vedova d’un marito del quale neanche per un minuto le era fregato qualcosa – e Rhett lo sapeva.
La invitava a ballare, qualche beghina diceva la signora non può, è in lutto, ma a Rossella non pareva vero di gettarsi sulla pista da ballo, sfinita da quella simulazione di malinconia (Rossella O’Hara poteva essere disperata, ma mai malinconica, una sfumatura che richiedeva quella riflessività di cui le mancava proprio l’enzima).
Dopo un po’ di volteggi, diceva civettuola qualcosa tipo: un altro ballo, e la mia reputazione sarà rovinata per sempre. Rhett – che sapeva tutto, sempre – rispondeva con una frase che immagino tatuata sui bicipiti delle peggiori palestre di Caracas: chi ha coraggio fa anche a meno della reputazione.
Ci penso spesso, in questi giorni impazziti di molta polvere e pochissima gloria: che te ne fai della reputazione? Perché ci teniamo tanto, in questi giorni impazziti che qui non si fa la storia ma tanta di quella beneficenza che in confronto Bob Geldof era un egoista? Perché è così importante essere i buoni? Perché tutto resta, e una volta se eri un po’ stronzo lo sapeva solo il paesello e adesso è tutto in mondovisione? Ma, se tutto è in mondovisione tutto il tempo, quale monade ha spazio per ricordarsi dei misfatti delle altre? Se tutto è gravissimo non è anche tutto irrilevante? Se tutti sono altruisti ci accorgeremo ancora dell’altruismo? Se tutto è devoluto alle buone cause, la Lamborghini come la compri?
Un tribunale ha stabilito che Kevin Spacey debba pagare 31 milioni di dollari. Ma le accuse di essere saltato addosso a un tizio non erano state ritirate causa messaggi che provavano che il tizio ne era stato ben lieto? Questa causa è un’altra. È per House of Cards.
Invece di fare noi spettatori causa alla produzione per averci privato di Spacey, unica ragione per guardare quell’acquario di squali che saltavano altri squali, si sono fatti causa tra loro. Spacey perché (sintesi mia) «cazzi vostri se m’avete voluto togliere dal cast, il mio onorario lo pagate lo stesso»; la produzione perché (sempre sintesi mia) «sì ma tu anni fa hai palpeggiato un assistente e non abbiamo detto niente perché i reati sessuali non andavano di moda ma adesso possiamo dire che siccome sei stato poco professionale cinque anni prima non ti vogliamo nel cast cinque anni dopo».
È finita con un arbitrato, che ha dato torto a Spacey. Quei 31 milioni sono il costo della reputazione. Ormai, se anche uscissero dei filmati in cui sono i presunti violentati a saltargli addosso, la reputazione di Spacey non sarebbe ripristinabile. Se Charlie viene accusato d’aver stuprato una capra, dicevano qualche stagione fa in Billions, anche se la capra nega, quando Charlie muore ci sarà scritto sulla sua tomba «stupratore di capre».
Ieri, subito dopo aver letto la notizia di Spacey, ho aperto Facebook. C’era un post non recentissimo: un amico aveva linkato il mio articolo sull’infermiere di TikTok, quel disgraziato che aveva postato un video cafone e, non essendo garantito dai sindacati in quanto precario, era stato licenziato. Era un articolo che sembrava aver causato il massimo delle polemiche possibili (poi sono arrivati i romani che parlano romano, giacché ogni record è fatto per essere battuto, ogni scemenza fatta per superarsi, ogni pomeriggio va riempito in qualsivoglia modo che non sia lavorare, se hai un pacchetto dati e un cassetta della frutta a forma di social su cui salire per dire la tua).
L’amico lo linka, e sotto ci sono gli abituali commenti sintetizzabili in ma-guarda-questa-stronza. Uno attira la mia attenzione. Lo scrive un tizio mai visto, e fa così: «Certo, proprio lei che a chi gli dava addosso in rete, chiamava i datori di lavoro per denunciare che stavano sui social invece di lavorare. Ipocrisia zero, proprio». Il fatto che l’autore del commento abbia evidentemente falsificato la licenza elementare non è la prima cosa che mi colpisce. Supero le correnti gravitazionali, la punteggiatura a caso, i «gli» per «le», e arrivo abbastanza rapidamente a: ma di chi sta parlando? Per chi mi ha scambiata?
Non può che essere uno scambio di persona, no? C’è qualcuna (sarà quella solita Guaia Sorcioni) che chiama datori di lavoro (io credo di non averne mai chiamato neanche uno mio) e dice loro: guardate che il vostro dipendente, invece di produrre, scrive su Facebook che non mi si scoperebbe neanche in punto di morte (interrompendo il datore di lavoro che sarà intento a scrivere a Gisele Bündchen che il suo pene può sognarselo, essendo presumibilmente anch’egli italiano e quindi combinazione perfettissima di mitomane e sfaccendato). È una bella scena, per carità, se mi scritturano la interpreto volentieri.
Nel ruolo in questione – quello della telefonatrice ai datori di stipendio, non di Gisele – sarei, immagino, anche una che, in occasione del licenziamento dell’infermiere, scrive per la prima volta della maggior piaga contemporanea: la richiesta della testa di colui che ci turba a mezzo pensieri, parole, opere e cuoricini. Considerata l’indignazione del tizio per questa «ipocrisia» (mi viene in mente Tina Cipollari che a Uomini e donne urla «sei falsa», ma cerco di restare seria), non può stare rivolgendosi a una che su questa dinamica ha scritto qualche centinaio di volte lo stesso articolo nonché ampie parti d’un libro, no?
E poi mi rendo conto che invece potrebbe benissimo crederci. L’umanità è piena di gente affetta da pseudologia fantastica: immaginano mondi e poi li credono reali. Questo tizio, al quale è inutile chiedere 31 milioni di dollari un po’ perché non ce li avrà e un po’ perché i tribunali italiani cara grazia se ti danno 31 euro di risarcimento, crede davvero alla versione bislacca di me che s’è immaginato e con la quale si balocca (un po’ amica immaginaria, un po’ bambola gonfiabile). Ed è allora che capisco la differenza tra Rhett Butler e noi, ma soprattutto tra Kevin Spacey e me: io appartengo a una scuola di pensiero lievemente diversa; quella secondo la quale, a fare a meno della reputazione, è chi è troppo pigro per difenderla.