La Stampa, 24 novembre 2021
I primi 100 giorni del governo talebano
Cento giorni dopo il disastro il problema è irrisolto: trattare con il diavolo talebano? Questo avviene ogni qual volta il nemico viene tratteggiato come una delle figure del Male assoluto. Quando si deve rinunciare a questa identificazione, proficua per infiammare la guerra, e si passa alla diplomazia ci si accorge che non esiste Terrorismo senza terroristi, Fanatismo senza fanatici, Integralismo senza integralisti. Ed Emirato afgano senza taleban.
Come lo raccontiamo allora dopo questo breve tempo? Con le immagini dei bambini denutriti in ospedali dove tutto salvo i loro sguardi è annientato dalla miseria. Sono loro che continuano a pagare il prezzo della guerra, sono loro che non dimenticheranno mai, se sopravvivono, quale sia stato il vero prezzo da pagare. E quelle degli afgani "senza qualità" che non abbiamo portato via e a cui non sono rimaste neppure la fuga, la diserzione, le armi modeste e sacrosante con cui l’uomo comune ha difeso sempre il suo diritto a sopravvivere dal sopruso di volerlo morto. Non morire è il loro ideale, il più degno di tutti. L’unico in cui scorgo l’onore, perfino il coraggio.
Sofferenza infinita
Da appena cento giorni l’Afghanistan è sospeso in una zona scura, con i suoi segni, i suoi messaggi, i suoi geroglifici, ai margini di una estensione ridiventata ignota, che prolunga tra le ombre il mondo della nostra Storia. Unica cosa certa è che la guerra è finita ma non la sofferenza degli afgani, tra attentati micidiali, fame e inverno incombenti, oscurantismo applicato con omeopatica ma spietata efficienza. La tentazione dell’oblio tra noi sconfitti, quella, avanza. Più che le cose dette pesano le reticenze. Uomini, donne e bambini afgani irremissibilmente retrocedono nella gerarchia delle urgenze delle cancellerie, anime svanite, come ricacciate in una nuova gestazione. E sopravvivono solo nella indomita pignoleria di minoranze misericordiose, il loro riaffermare che anche lì restiamo presenti.
Nessun passo indietro
Se mai c’erano dei dubbi sul diavolo ora almeno questi sono fugati. Perché i taleban sono stati in questi cento giorni coerenti. Hanno disegnato fortemente i propri contorni. Nei loro piani era il progetto di ereditare intatto l’Afghanistan dal vecchio governo, compresi gli indispensabili aiuti umanitari internazionali. Hanno preso in mano il caos e questo li ha portati molto vicini al disastro. Ma non hanno fatto un passo indietro nei loro santificati soprusi. Chi li dipingeva panglossianamente come mutati dalle comodità del potere, tendenti al moderato, disposti a far le fusa all’Occidente perché assillati dalla necessità di riconoscimento e di aiuti, ha dovuto riporre le proprie carte. Pensavano che la vittoria accade e quindi si consuma. Spiano invece, come cento giorni fa, all’epoca dell’aeroporto di Kabul, i soliti volti tremendi, colmi di un selvatico, tetro potere.
L’Afghanistan dei cento giorni appare saldamente talebano e l’unico nemico che li sfida è la versione locale del terrorismo dell’Isis, che sta infoltendo i ranghi. La promessa talebana di garantire almeno la sicurezza in un paese della guerra eterna appare dunque falsa. Purtroppo neppure i più cinici fautori della realpolitik potrebbero mai immaginare di investire sul Califfato indigeno come forza di resistenza. Anzi il loro attivismo sanguinario che mette freddo alla pelle sarebbe una tentazione in più per accomodarsi alla coesistenza con i taleban, jihadisti di una guerra santa micidiale ma paesana, rigorosamente ristretta ai confini nazionali. Non genereranno una vasta prole di fanatici capace di far saltare in aria il pianeta. Non invadono, non ingombrano, restano lì.
L’emirato si presenta in pericolosa e rapida discesa verso il collasso, sospeso a una mezza vita anemica. Non ci sono soldi per pagare i funzionari e soprattutto i miliziani. Conseguenza di una economia da venti anni totalmente artificiale tenuta in piedi solo dal sostegno americano e dall’aiuto internazionale. Così, con i fondi della banca centrale bloccati dagli Stati Uniti come misura di pressione e dal fondo monetario, ventidue milioni di afgani sono in situazione di insicurezza alimentare acuta e nove già alla carestia.
Ancora una volta come al momento della decisione di riconsegnare il Paese ai taleban l’Afghanistan si presenta innanzitutto, a noi, come un problema morale. Cercare, dopo una sconfitta una soluzione perfetta che garantisca sicurezza, un panorama mondiale immacolato e in più sia coerente con degli assoluti morali, proprio noi che abbiamo tradito gli afgani andandocene, appare come un errore arrogante. Facciamo collezione di ragionamenti pericolosi.
Politicizzare gli aiuti
E’ la tentazione, neppur troppo nascosta, di politicizzare gli aiuti, ovvero subordinarli ad una accettazione di alcuni principi chiave capaci di rendere il diavolo talebano meno impresentabile, ovvero concessioni sulla libertà di donne e minoranze, e attenuazione dei bulloni della sharia sulla società.
Si fanno tentativi un po’ ipocriti in questa direzione, aiutando ma sotto spoglie anonime, consentendo l’invio di aiuti ma a non impegnative "organizzazioni non governative". Diciamolo: un affaruccio da usuraio, un po’ vigliacco. Ai taleban è sufficiente per presentarlo come un implicito "riconoscimento".
Non è affatto certo che il rapporto di forza basato sugli aiuti funzioni davvero e non renda semplicemente proprio coloro che dobbiamo aiutare come donne e bambini più esposti a fame e abbandono. I taleban da vincitori non hanno ceduto in nulla e sanno presentare la carestia come l’ennesima aggressione indiretta e vendicativa dell’Occidente a cui hanno saputo tagliare gli artigli. Strada maestra per scatenare un nuovo riflusso di odio contro gli stranieri.
Purezza e rigore
Ma alla luce dei primi cento giorni siamo poi sicuri che i taleban siano davvero così ossessionati dal patire quotidiano dei loro trenta milioni di sudditi? Che abbiano per attenuarlo bisogno di noi? I jihadisti, e i taleban lo sono, hanno scarsa attenzione al benessere minuto del popolo. La compassione non fa parte della loro arte di governo. Loro compito è assicurare con gesti inequivoci la virtù necessaria per meritarsi l’apoteosi bigotta non il miraggio della pancia piena o del tasso di sviluppo. Nel loro messianismo implacabile il povero affamato è avvantaggiato nell’ascesa. Al contrario di altre tirannidi apportano alla loro violenza uno scrupolo di purezza e di rigore che la rende ancora più salda, capace di mineralizzare l’uomo.
Non facciamoci illusioni sul dinamismo delle vittime, non speculiamo, ferocemente e con troppe speranze, sulle rivolte della fame. Sullo sfondo c’è la Cina che fa fluire per ora un rivolo di aiuti, barattandoli però con forniture utili. Per i taleban. Una tentazione. E una soluzione.