La Stampa, 24 novembre 2021
Il problema dei bambini in carcere
Quando il 18 settembre del 2018 Alice Sebesta, una donna tedesca di 33 anni, uccise i suoi due figli – la bambina di sei mesi, il maschio di un anno e mezzo – gettandoli dalle scale della sezione nido del carcere di Rebibbia, tutti dissero: «Mai più». L’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede ha confidato – anni dopo – di aver pianto, quel giorno. I politici di tutti i colori si sono interessati, per qualche settimana, delle condizioni dei bambini piccoli, piccolissimi, costretti a vivere e crescere dentro a un carcere per espiare la colpa delle loro madri. Ma da allora, quasi nulla è cambiato.
C’è una legge che langue in commissione Giustizia alla Camera: il primo firmatario è il deputato Pd Paolo Siani. La ratio è molto semplice: davanti a una madre con figli piccoli, la prima scelta del giudice deve essere sempre una casa protetta (ce ne sono solo due, una a Milano e una a Roma, ma ci sono – approvati nell’ultima manovra di Bilancio – 4, 5 milioni di euro per costruirne altre). E quindi, solo in caso di reati particolarmente gravi o efferati, una madre col suo bambino dovrebbero andare in cella. Oggi è il contrario. Oggi sono la prigione o l’Icam, gli istituti a custodia attenuata, la prima scelta. Quella che porta bambini di pochi mesi, fin a tre anni, a vivere la loro prima infanzia chiusi in posti bui, con le sbarre che si chiudono alle otto di sera, con la possibilità di uscire con i volontari sospesa in tempo di Covid e ancora oggi, in un carcere come Rebibbia, dove l’abitudine di portarli al nido al mattino non è mai ripresa per questioni sanitarie. E dove i nuovi arrivi stanno per una settimana in isolamento Covid con le loro madri (vuol dire chiusi in cella, 24 ore su 24, 7 giorni su 7).
Negli Icam i minori possono rimanere fino a 6 anni, alcuni a 10, ma anche se non hanno sbarre, restano una prigione. Dove tornare da scuola senza potersi fermare a casa dei compagni. Dove c’è sempre un’assistente che magari non è in divisa, ma alla quale devi chiedere: «Apri. Ti prego, apri». È la prima parola che imparano i bambini in carcere, «Apri». Prima di mamma, prima di papà. E così non parliamo solo di scandali come quello del reparto per malati psichiatrici al Lorusso e Cotugno di Torino, quando parliamo di carcere. Lo ha detto più volte Carla Garlatti, Garante nazionale per l’Infanzia, già giudice minorile: «È una questione di uguaglianza sostanziale: ogni bambino deve poter partire dalle stesse condizioni di partenza degli altri. In un carcere non è possibile. A luglio avevo chiesto che i fondi per le case protette fossero sbloccati. Sono felice che il 15 novembre sia finalmente accaduto».
A Torino, poco distante dal Sestante, il reparto della vergogna, c’è l’Icam, al piano terra della palazzina dei semiliberi. In questo momento ci abitano tre bambini. Chi di loro va a scuola, per farlo deve attraversare i cancelli. Sa di essere in prigione. Sa che la colpa è della madre. Sara (il nome è di fantasia) che ora è stata accolta a Saluzzo dalla comunità Giovanni Paolo XXIII, in quell’Icam è stata tre anni. Nel suo racconto, c’è tutto quello che un carcere fa a bambini così piccoli. È entrata che l’ultima figlia aveva un anno e due mesi. Quando quella di tre anni le ha raggiunte «piangeva, non dormiva la notte, aveva gli incubi, non voleva entrare in stanza». A un certo punto la lascia a casa con i parenti e anche ai colloqui, la bambina non vuole più andare: «Si nascondeva sotto il tavolo, aveva paura che la tenessi con me». Torna quando è un po’ più grande e va a scuola, ma il confronto con il mondo fuori fa ancora più male: «Mi diceva stai tranquilla, sto bene, ma poi cominciavano le domande: perché non posso fermarmi al parco dopo scuola? Perché non posso restare a casa dalla mia amica? Molte delle mie compagne i bambini non li mandavano neanche fuori con i volontari, perché poi non volevano tornare, urlavano, si graffiavano la faccia». Sara – 27 anni oggi, 22 quando è entrata in prigione – ha scoperto in carcere che per vivere si può lavorare, che non si deve rubare per forza. Prima, semplicemente, non lo sapeva. Suo figlio più grande vive con la nonna e con lei non vuole tornare. Quasi non la conosce: «Non voglio vederlo soffrire. Soffro io e va bene così». Ma fuori, con i 250 euro che prende grazie a un lavoretto da volontaria, con i documenti da apolide che finalmente ha ottenuto, sogna di ricostruire.
La luce di fuori è quella di cui parlano a Roma, alla Casa di Leda, una delle due case protette esistenti, Xionati Episcopo e Zhera Hadovic. Xionati ha 30 anni, una condanna a 9 per associazione a delinquere, un marcato accento romano: «Il momento più brutto è stato quando ho lasciato mio figlio che aveva 9 mesi, gattonava, e l’ho rivisto che correva». I suoi due bambini sono con lei, ma presto potrebbe dover rientrare in prigione: «La notte li guardo dormire tranquilli e so che il mio è un conto alla rovescia. Che succederà? Dovrò mandare in cura anche il secondo. Il primo – quello che quando ero a Rebibbia avevo dovuto lasciare – ci ho messo un anno per riconquistarlo». Zhera qui ha due figlie. Parla meno di Xionati. Dice però qualcosa che è al fondo di tutto. E cioè: «Qui adesso vedo la luce. In carcere non c’è la speranza». La casa di Leda (gestita dall’Asp Asilo Savoia) è dedicata a Leda Colombini, mondina, partigiana, deputata del Pci, una vita per gli ultimi e alla fine proprio per i figli delle detenute. Fu la prima a lottare per una legge migliore. Ancora, a 10 anni dalla sua morte, il suo sogno non si è avverato. Dice Marta Cartabia: «I numeri sono limitati, ma anche un solo bambino in carcere è troppo: perché infliggere la pena a un bimbo o una bimba innocente, la cui infanzia sarà segnata per sempre?». Dal ministero spiegano quanto siano complessi i casi: a volte, davanti a una possibilità di uscire, alcune madri dicono no. Come dice Monica Gallo, garante dei detenuti a Torino: «Il carcere è diventato un enorme contenitore di disagio sociale». Ma possiamo continuare a permettere che sia così? «Si sta lavorando da mesi per cercare di offrire a ciascuna madre detenuta con i figli una diversa possibilità, in sintonia con i propri bisogni e con le specifiche esigenze del caso – spiega la ministra della Giustizia – un contributo decisivo ci arriva dalla disponibilità di alcune associazioni del terzo settore, come la Papa Giovanni XXIII». Cartabia si rende conto che è solo l’inizio: «Lavoriamo perché nessun bambino muova i suoi primi passi negli spazi angusti di un carcere o rappresenti il cielo con le grate alle finestre, come ho visto da alcuni disegni. Questo non ha nulla a che fare con la funzione rieducativa della pena di cui parla la nostra Costituzione».
C’è una legge che langue alla Camera, per fare di più. Basta approvarla (se il Parlamento decidesse di andare avanti – dicono a via Arenula – avrebbe l’appoggio della ministra). Ci sono centinaia di migliaia di euro arrivati alle Regioni per costruire nuove case protette: basta spenderli pensando, per una volta, prima di tutto ai bambini. In questo momento in carcere in Italia ce ne sono 23. Erano 59 a febbraio 2020, prima del Covid. 33 a giugno. Si può fare di più. Basta quella che Luigi Manconi, presidente di A buon diritto, da tempo in lotta su questo tema, chiama: «La volontà politica».