Gli studenti hanno vissuto due anni difficili a causa della pandemia e di una scuola che è andata avanti a singhiozzi tra Dad e lezioni in presenza. Perché è contraria alla proposta di un esame light?
«Sono infuriata, ai ragazzi bisogna saper dire anche dei "no". Aiutano a crescere. Di fronte a un timore, l’educatore, l’adulto, il legislatore devono valutare se sia più formativo acconsentire a eliminare l’intralcio o affrontare il problema. Cercare di evitare l’ostacolo non mi sembra la soluzione. Confrontarsi con le proprie difficoltà è il senso di tutti gli esami, che sono prima di tutto sfide cognitive. Rimuovere le prove scritte dalla maturità significa privare il percorso educativo del suo punto di approdo finale, svuotare l’esperienza scolastica. È come prepararsi per una gara che poi non si sosterrà. Piuttosto bisognerebbe pensare altre soluzioni».
A che cosa pensa in particolare?
«Per quanto riguarda la prova di italiano si potrebbe dare ai ragazzi la possibilità di raccontare la propria esperienza e scrivere che cosa si aspettano, dopo questi due anni di pandemia, dal futuro. Potrebbe venirne fuori il diario di una generazione, una banca dati preziosa. La vita e il percorso scolastico vanno di pari passo, non dimentichiamolo. La scrittura serve anche a questo, a sviscerare ciò che istintivamente saremmo portati a cancellare. È un gesto razionale ed emotivo al tempo stesso».
Può essere una sorta di compensazione alla brevità fulminante dei social network?
«Aiuta prima di tutto ad organizzare il pensiero attraverso connessioni logiche. Vale per le materie letterarie ma anche per quelle scientifiche. E serve a chiunque, non solo a scrittori e giornalisti ma pure a medici, avvocati, a tutti. Oggi invece i ragazzi sono abituati a testi episodici. Sui social connettono al massimo qualche riga e con l’ortografia non hanno più alcuna familiarità.
Scrivono con disinvoltura senza accenti e senza maiuscole, alcuni non sanno più usare il corsivo. Una volta mi è stato consegnato un compito completamente in stampatello. La punteggiatura è quasi sconosciuta e il pensiero diventa un flusso indistinto».
Non è una novità che i cambiamenti linguistici nascano da esigenze di semplificazione, crede davvero sia un processo arrestabile?
«In ogni caso a chi scrive si chiede di saper riconoscere il registro giusto. I ragazzi devono imparare a contestualizzare, capire che non è la stessa cosa rivolgersi a un amico o a un datore di lavoro. Lo scarto dalle regole è possibile ma solo a patto di conoscerle. C’è bisogno di potenziare la scrittura, non di indebolirla. Mi piacerebbero più laboratori nelle scuole che coinvolgano attivamente gli studenti».
Sul modello di quelli che lei ha tenuto nel carcere minorile di Nisida?
«Facevo parte di un gruppo, insegnavamo a scrivere, a immaginare il futuro. Durante la Dad ho chiesto ai miei allievi del liceo di raccontare la loro esperienza per poi leggerla ai compagni ad alta voce. È così che un ragazzo è riuscito a trovare le parole per confessare il suo fortissimo senso di colpa. Si era infettato sul pulmino che lo portava a scuola e poi aveva contagiato genitori e nonni che vivevano con lui. La scrittura lo ha aiutato a guardare il suo disagio e finalmente a parlarne».
È figlia di insegnanti e ha raccontato più volte di aver iniziato a scrivere da ragazzina. Che cosa ha rappresentato la scrittura per lei?
«Un fatto identitario. Un luogo per capire chi fossi, per individuarmi. Mi permetteva di entrare in contatto con me stessa, di conoscermi. Riuscivo a sentire la mia voce solo quando era scritta».
Nei suoi romanzi, la scuola è sempre il presupposto dell’emancipazione. Oggi si parla di analfabetismo funzionale, un preoccupante impoverimento del linguaggio.
«Don Lorenzo Milani diceva che la differenza tra il padrone e l’operaio si vede da quante parole conoscono l’uno o l’altro. I nostri ragazzi hanno un vocabolario risicato e questo allarma».
Oliva Denaro, protagonista dell’ultimo suo libro, ricopia ogni giorno parole nuove dal dizionario. Perché lo fa?
«Per migliorare il suo modo di esprimersi, ma anche per avere un’ampiezza interiore maggiore».
Recenti test Invalsi hanno restituito un quadro terribile: uno studente su due delle scuole superiori non raggiunge i livelli minimi in matematica e il 44% in italiano.
«E la Campania è stata maggiormente sfavorita a causa di una Dad più lunga. La situazione è drammatica. In prima liceo alcuni miei studenti hanno ammesso che i loro ricordi scolastici più freschi risalgono alla quinta elementare.
Questi ragazzi hanno subito un danno, vanno risarciti non ulteriormente penalizzati. Il loro appello al ministro, pieno com’è di svarioni grammaticali, mi sembra più una richiesta di aiuto: aiutateci a scrivere meglio».