Linkiesta, 23 novembre 2021
La lettura si estinguerà, e tutto sommato è meglio così
Ho frequentato le scuole elementari nella Bologna di fine anni Settanta. In via Castiglione, a metà strada tra casa e scuola, io e la Violetta ci fermavamo a prendere cinquecento lire (in romano: mezza piotta) di crescenta (in romano: pizza bianca). Quarant’anni dopo, dovremmo leggere cinque pagine al giorno, se fossimo figlie del lettore di D’Avenia il cui reddito di narrativa era pubblicato ieri sul Corriere, e se ci tenessimo alla nostra crescenta.
Riferisce Alessandro D’Avenia (scrittore i cui romanzi hanno venduto più di centomila copie l’uno, una cifra che in Italia non raggiungono in tantissimi, specie tra gli autori di libri non gialli) che un padre gli ha scritto definendo sé e la moglie «sfiniti» dai due anni pandemici che hanno reso i figli dipendenti da cellulari e altri infernali attrezzi elettronici (prima del Covid, invece, solo giocattoli di legno). I bambini non leggono più, e lui e la moglie hanno optato per l’incentivo economico: un euro ogni venti pagine lette.
D’Avenia dice che inizialmente era perplesso, ma poi ha capito che è giusto corromperli: se non leggono da piccoli non leggeranno mai più. A sostegno dell’imprescindibilità della lettura cita: Cesare Pavese (nato nel 1908); Albert Einstein (nato nel 1879); Maryanne Wolf (nata nel 1947). I tre hanno fatto mestieri diversi, e i primi due sono pure morti, ma hanno una caratteristica che li accomuna, e che accomuna D’Avenia, e me, e gli adulti di oggi: quando erano (eravamo) piccoli, o leggevi o leggevi.
I canali televisivi erano inesistenti nell’infanzia di Pavese e pochissima roba nella nostra; i videogiochi pure (io mi fermavo a giocare a Popeye in un bar tornando da scuola, poi arrivò il Vic 20 a casa, ma il serpente era troppo ripetitivo per appassionarcisi davvero). Il telefono si usava per parlare, la rete era quella cosa con cui un ragazzino faceva quasi scoppiare una guerra al cinema, al posto delle chat c’era il citofono: non leggevamo per passione, leggevamo per disperazione (e perché non c’invitavano a giocare al gioco della bottiglia).
Sono così convinta che la lettura sia destinata a estinguersi, oggi, che nessun dato che mi smentisca riesce a farmi cambiare idea. Certo, ogni tanto arriva una Valérie Perrin o una Stefania Auci a vendere cifre spaventevoli e predigitali. Ma sono eccezioni, lo so, lo sento, ne sono certa: Fabio Volo, nella settimana d’uscita, vende con l’ultimo romanzo la metà di quel che aveva venduto nella prima settimana del penultimo: volete dirmi che non è un segno della fine?
Certo, i vari volumi del Diario di una schiappa hanno venduto, nelle librerie italiane nell’ultimo anno, un totale di trecentottantamila copie. Certo, le ragazzine si appassionano a Fairy Oak, una roba fantasy (di autrice italiana ma con titolo inglese) di cui non voglio sapere niente (ridatemi Pattini d’argento, se non la mia Seicento e una ragazza che tu sai).
Allora, forse, il problema dell’incentivo economico sta nei titoli che D’Avenia sceglie di usare come esempio. Guerra e pace, La metamorfosi, Delitto e castigo. Forse ai ragazzini dei classici non gliene frega niente. Forse qualunque cosa ti facciano leggere a scuola ti fa schifo per principio.
Non sarà mica un caso che, con qualunque grande scrittore parli, quello ti dica che ha capito solo da adulto quant’erano enormi Manzoni o Dickens, e i più velleitari analfabeti amino invece vantare un’infanzia di letture. Poche cose sono garanzia di piattume intellettuale come «fin da piccolo m’è sempre piaciuto leggere», forse solo «sono sempre me stesso». (Adesso mi raccomando, offendetevi e notificatemi che voi da piccoli leggevate tantissimo e adesso siete splendidi quarantenni: cosa leggevate a fare, se non vi è servito neanche a capire che il punto non è se leggevate – certo che leggevate: vi ho appena detto che non avevate alternative – ma il fatto che ve ne vantiate invece di rendervi conto che era un rifugio da disadattati).
Ma poi, sarebbe un male se si smettesse di leggere? Sarebbe pessimo per la capacità di noialtri scriventi di procurarci un reddito, certo (quasi nessuno di coloro che per mestiere scrivono sa fare cose utili: schiumare cappuccini, potare siepi, curare molari). Ma forse è una naturale evoluzione: i maniscalchi che diventano gommisti, il progresso inarrestabile, la necessità di formare la popolazione a nuovi lavori (ci daranno un navigator).
E non sono così sicura sia vero che leggere stimola l’immaginazione come, nell’esempio di D’Avenia, non sanno invece fare le immagini in movimento, in cui gli autori hanno fatto il lavoro per conto dello spettatore: davvero guardare Bergman (ma pure Lynch, ma pure Nolan) è meno impegnativo che leggere D’Avenia?
E davvero se non leggiamo libri non leggiamo altro? Siamo sicuri che sia una tesi sostenibile, nell’epoca dei messaggi, delle chat, dei social network? Non sarà, piuttosto, che quest’epoca ha dimostrato che leggere non serve a niente, neanche a imparare a leggere? Non abbiamo mai letto così tanto, non abbiamo mai capito così poco. Siamo sicuri che questo equivoco vada incentivato? Non sarà il caso che un qualche Cappato fermi l’accanimento genitoriale e lasci che la lettura muoia dignitosamente?