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 2021  novembre 23 Martedì calendario

Intervista a John Grisham

Entertaining. Eccolo, il mantra letterario di John Grisham. Intrattenere, svagare, regalare tempo libero di qualità: storie avvincenti che ci tengono compagnia sul divano di casa o sul sedile di un treno. E se obietti che i suoi legal thriller, venduti a centinaia di milioni di copie nel mondo, nel corso dei decenni hanno sensibilizzato i lettori su temi serissimi — dalla pena di morte al razzismo, dai soprusi delle assicurazioni ai campi profughi africani — lui sfoggia il sorriso affascinante da gentiluomo bianco progressista del Sud degli Stati Uniti e scuote la testa: «È vero, ma il mio compito è solo produrre della buona narrativa popolare», ci dice, via Google Meet, dalla residenza in Virginia dove vive e lavora.
Una visione del mestiere diventata ancora più netta ora, con la pandemia: la voglia di evadere dalla dura realtà con una bella avventura mozzafiato, senza nemmeno le consuete implicazioni social-politiche di tante sue trame narrative, lo porta infatti a debuttare nel mondo dei serial killer con La lista del giudice (Mondadori), in cui, come da titolo, l’ex avvocato Grisham trasforma in pluriassassino un alto funzionario dei tribunali. Mentre a dargli la caccia è Lacy Stoltz, donna tosta della Florida che avevamo già conosciuto nel romanzo L’informatore .
John, la scelta di prendersi una delle sue rare vacanze dai legal thriller è legata al Covid?
«Abbiamo vissuto tutti un periodo duro. All’inizio quello che accadeva era terrorizzante, non riuscivo a pensare ad altro; poi però ho cominciato a scappare dai notiziari, a chiudermi alle spalle la porta del mio studio e a scrivere, scrivere. Una via di fuga fondamentale».
E così, per distrarsi, ha creato il suo primo serial killer…
«L’assassino seriale è una figura che affascina tutti da sempre. A maggior ragione in un Paese, il mio, che ha un tasso altissimo di crimini violenti, il 30-40 per cento dei quali resta insoluto. E nessuno sa quanti assassini rimasti impuniti abbiano compiuto più di un delitto. Anche per questo, leggere storie che hanno come protagonisti i serial killer è appassionante, malgrado la natura disturbante ed egomaniacale dei personaggi».
Ma perché piacciono tanto?
«Credo che siamo attratti dal delitto in generale. La crime fiction è un fenomeno immenso, in tutti i paesi e le culture. Non solo adesso: pensiamo a quanti episodi efferati ci sono già nella Bibbia, omicidi, cadaveri. Per non parlare del fascino letterario esercitato da personaggi reali come Jack lo Squartatore. È qualcosa che ha a che fare col nostro essere umani, con il nostro modo di rappresentare il Male. Di sublimare la rabbia, la violenza, concentrandola in un unico individuo».
Siamo lontani dal tipico stile Grisham?
«Negli ultimi anni mi sono concentrato spesso su storie che raccontano le ingiustizie di un sistema legale che prevede la pena di morte, che maltratta la povera gente e gli afroamericani. Anche se sempre allo scopo di intrattenere, la letteratura “seria” non fa per me.
Con questo romanzo, scritto durante la pandemia, ho voluto ancor di più dedicarmi all’ entertaining con una crime fiction pura, un po’ vecchia maniera, a base di suspence».
Una classica storia di paura.
«Ho cercato di spaventare un po’ il lettore, cosa che di solito non faccio. Trent’anni fa lessi Il silenzio degli innocenti e mi terrorizzò a morte: ho provato a riprodurre in qualche modo quella sensazione. Con qualche differenza rispetto al genere. In questo tipo di libri infatti la violenza è molto grafica, esibita, spesso gli scrittori indulgono in dettagli raccapriccianti. Nel mio ci sono sì due-tre scene sanguinose, ma in generale ho preferito lasciare di più all’immaginazione».
Viviamo nell’era del politicamente corretto: prima di pubblicare il romanzo le è stato chiesto di cambiare qualcosa per non offendere questo o quel gruppo di opinione?
«Sono un narratore che da anni fa guadagnare gli editori e finora nessuno ha mai interferito. Ma è disturbante pensare che si possa dire a qualcuno “cosa” scrivere. Ed è proprio ciò che sta accadendo: libri che non vengono pubblicati perché l’autore non è gradito a un determinato gruppo di persone.
Qualche anno fa c’è stato il caso American Dirt di Jeanine Cummins.
Quando leggo, non mi interessa sapere se chi scrive è bianco, nero o marrone. E invece contro di lei in tanti sono insorti, perché non è ispanica e parlava del Messico: hanno cancellato le presentazioni, ci sono state minacce di morte. È qualcosa di folle, di terribile: viviamo davvero nell’era della cancel culture. Nelle università se un oratore ha un pensiero minimamente controverso rispetto a quello prevalente non viene più invitato a parlare. La parola d’ordine è “cancel the speech”».
Una censura a tutti i livelli?
«Nell’editoria americana attuale i libri vengono sottoposti a commissioni che valutano se i contenuti possono essere “sensibili” o offensivi per qualcuno. E autori giovani, bianchi e maschi hanno tantissima difficoltà a essere pubblicati: gli agenti dicono loro “siete stati privilegiati per tanto tempo, ora tocca agli altri, il mercato è andato altrove, voi non vendereste”. Può essere, io non lo so. Ma so di sicuro che se fossi un giovane maschio bianco sconosciuto questo libro non sarebbe uscito».
Aver aperto il mercato alle minoranze non è un bene?
«Certo che lo è. Ed è splendido che tanti autori afroamericani di talento vengano finalmente pubblicati, promossi adeguatamente e ben recensiti. Mentre non è bello che quello degli autori bestseller continui a essere un club di soli uomini bianchi e di una certa età, magari con un paio di eccezioni al femminile. Abbiamo bisogno di voci diverse. Ma di tutte le voci».
Come si esce dal vicolo cieco?
«Nel mio Paese è particolarmente complicato a causa della terribile eredità dello schiavismo, il grande peccato originale della nazione. Un sentimento, quello razzista, che ancora anima i gruppi dell’alt-right, purtroppo molto ben organizzati. Se non troviamo una via di mezzo tra l’odio degli opposti estremismi di destra e di sinistra non ce la faremo mai».