Corriere della Sera, 23 novembre 2021
Vent’anni di tasse, tra tagli e promesse
Ieri i rappresentanti dei partiti di maggioranza si sono riuniti attorno al ministro dell’Economia, Daniele Franco, per suddividere gli otto miliardi dei tagli alle tasse. Non c’è da tenere il fiato sospeso. Tra non molto un compromesso dovrà per forza profilarsi, probabilmente con una distribuzione a favore del taglio delle imposte sui redditi personali ma senza dimenticare le richieste delle imprese.
Gran parte degli otto miliardi sarà impiegata per il taglio dell’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche; il rimanente potrebbe andare a ridurre l’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. E alla fine la pressione del fisco sarà di mezzo punto percentuale più bassa rispetto a un’economia da oltre 1.600 miliardi di fatturato.
A quel punto gli italiani possono provare a mettere questo pacchetto in prospettiva e chiedersi: quante volte hanno già sentito parlare di tagli alle tasse negli ultimi vent’anni? Quanti governi, sostenuti da quanti partiti, non solo hanno promesso ma hanno realmente varato riduzioni della pressione fiscale? Lo hanno fatto praticamente tutti. Lo hanno fatto i governi di centrodestra («la più grande riduzione d’imposte della storia della Repubblica», annunciava l’allora premier Silvio Berlusconi nel giugno del 2002). Lo hanno fatto i governi di centrosinistra, con il taglio al cuneo fiscale sul lavoro varato dal secondo governo di Romano Prodi. Lo hanno fatto governi sostenuti dal Pd con i transfughi di Forza Italia, come quando il premier Enrico Letta con il suo vice Angelino Alfano cancellarono la tassa sulla prima casa. Lo ha fatto Matteo Renzi all’apice della sua fortuna politica, nella stagione degli 80 euro. E lo hanno fatto Lega e Movimento 5 Stelle con la «tassa piatta» al 15% sugli autonomi estesa a livelli di reddito medio-alti.
Quasi non c’è stato governo politico nella storia d’Italia di questo secolo che non abbia parlato di tagli alle tasse. Risultato? Zero, non siamo andati da nessuna parte. Restiamo dove eravamo quando siamo entrati nell’euro nel 1999. Anzi un po’ più indietro. In quell’anno la pressione fiscale era pari al 41,1% del prodotto interno lordo (Pil) – secondo la banca dati della Commissione europea – mentre l’anno prossimo sarà al 41,8%. Vent’anni di promesse e di decisioni non hanno partorito alcun reale cambiamento dell’onere fiscale, se non lievemente in peggio.
Questa semplice osservazione è di Giuseppe Pisauro, il presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, e si spiega in modo altrettanto elementare: è impossibile ridurre le tasse in maniera credibile e soprattutto duratura, se nel frattempo la spesa pubblica resta uguale o tende continuamente a salire. È quel che è accaduto in Italia in questi decenni. Ed è in questa cornice che vanno lette le richieste dei partiti al ministro Franco in queste settimane: la Lega vuole togliere l’Iva sui «beni essenziali», i 5 Stelle vogliono allargare la platea dei beneficiari della «flat tax» al 15%, il Pd propone di ridurre le tasse sui ceti-medio bassi, Forza Italia e anche la Lega chiedono di cancellare l’Irap.
Alcune di queste idee sono di qualità migliore di altre, se isolate dal contesto, ma esiste un test per capire quali chance hanno di lasciare il segno nei prossimi anni o se invece sono solo tattica politica di corto respiro. Basta vedere dov’è e dove sta andando la spesa pubblica, quella che va coperta (in gran parte) con le tasse degli italiani.
Anche sotto questo profilo tutto sembra come vent’anni fa, ma non lo è. La spesa pubblica complessiva occupa una quota dell’economia simile a quella di quando entrammo nell’euro, al netto dei ristori o dei sostegni concessi durante la pandemia e degli investimenti supplementari consentiti dal Recovery nei prossimi anni. In realtà il quadro è profondamente diverso: il costo degli interessi sul debito una ventina di anni fa era attorno al 6% del Pil, oggi è crollato sotto al 3%. In teoria dunque anche la spesa complessiva sarebbe dovuta scendere, invece è salita: prima di pagare gli interessi sul debito, la spesa pubblica l’anno prossimo sarà pari a metà del prodotto lordo – sempre secondo la Commissione europea – mentre nel primo anno del secolo era inferiore ad oggi di ben dieci punti di Pil. Se poi si guarda avanti, nell’ultima nota di aggiornamento del governo c’è un aumento di spesa pubblica di ben 43,5 miliardi fra il 2020 e il 2024 determinato quasi per intero dal costo della previdenza (a legislazione vigente).
Naturalmente ha ragione Mario Draghi, esiste debito buono e debito cattivo. Aumentare gli investimenti è indispensabile nei prossimi anni per chiudere le ferite dell’ultimo decennio e soprattutto per preparare il futuro. Lo è anche spendere per assicurare la transizione verde – indennizzando i ceti più colpiti – e per rafforzare il sistema sanitario in un Paese che invecchia. La spesa pubblica di base tenderà a salire ancora. Ciò rende l’Italia vulnerabile il giorno in cui la Banca centrale europea smetterà di tenere bassissimi gli interessi sui nostri titoli di Stato o se la crescita dell’economia dovesse deludere rispetto alle attese.
Difficile dunque credere ai partiti, quando parlano solo delle tasse da tagliare. Non stanno rispondendo alle domande essenziali, quelle che non hanno voluto ascoltare da Draghi e Franco in questi ultimi mesi: quali prelievi aumentare per far sì che i lavoratori o le imprese paghino meno? Di quali spese dello Stato è possibile fare a meno, per creare spazio a quelle inevitabili dei prossimi anni? Parlare di altro, senza parlare di questo, rischia di riportarci tra vent’anni di nuovo alla casella di partenza. O più indietro.