il Giornale, 22 novembre 2021
Gianni Brera raccontato dal figlio
Lì, nello studio di Montanelli, proprio alle spalle di Indro, fra il quadro di Maccari e la foto di Egisto Corradi, spiccava un articolo incorniciato. Nobile la firma: Gianni Brera. Era quello che in gergo giornalistico si chiama «coccodrillo», cioè la pagina commemorativa su un personaggio famoso appena scomparso. Prima riga del pezzo: «Se n’è andato in silenzio, vergognoso di morire come si dice dei gatti, alla cui specie sornione apparteneva...». Il «coccodrillo» in questione aveva come titolo, «Peppìn Meazza era il Fòlber»; tributo al grande attaccante, morto a Lissone il 21 agosto 1979. Tradotto dal geniale «brerese» in banale italiano, «Giuseppe Meazza era il Calcio». Un «Calcio» che per gli inglesi – che lo hanno inventato – è «Football»; ma che per il Grangiuan – che lo ha trasformato in poesia – è «Fòlber».
Narra la leggenda che Montanelli – pure lui esperto di «Calcio», di «Football» e, quindi, di «Fòlber» – un giorno abbia chiesto a Brera: «Scusa Gianni, ma perché scrivi Fòlber invece di «Football?». «GB» lo incenerì (cosa abbastanza naturale per uno che fumava 50 sigarette al giorno, 5 sigari e altrettante «tirate» di pipa): «Ma cosa vuoi capire tu di Fòlber che sei nato a Fucecchio...». E Indro – forse per la prima volta in vita sua – incassò il colpo, spazzando la palla in tribuna: scelta, probabilmente, apprezzata dallo stesso Brera, fine teorico del «catenaccio».
Ma allora qual è il segreto del famigerato «Fòlber», una fra le cento nuove creature sbrilluccicanti nel caleidoscopio lessicale di «GB»? Lo abbiamo chiesto al figlio di Gianni Brera, Franco, 70 anni, appassionato depositario delle invenzioni paterne. È lui che alle «parole-chiave» del più eclettico tra i giornalisti sportivi ha dedicato un libro di cui il papà sarebbe orgoglioso («Mai paura. Gianni Brera dalla A alla Z e oltre», Cinquesensi Editore). Non solo un alfabeto spumeggiante, ma anche un taccuino letterario sull’uomo che seppe trasformare la cronaca calcistica in racconto epico.
Franco, ci sveli il mistero del «Fòlber».
«Era tra le elaborazioni dialettali più care a papà».
Vogliamo conoscere la genesi.
«Il fòlber si giocava sui sabbioni del Po a piedi nudi. Le partite erano senza soluzione di continuità, dall’alba alla notte. È sinonimo di «football», ma con una venatura padana».
Nel libro sostiene che la morte ha «salvato» suo padre da mister come Lippi e Sacchi. In che senso?
«La filosofia calcistica di questi allenatori era profondamente diversa da quella di Brera. Il talento estroso dei fuoriclasse ingabbiato nell’aridità degli schemi non faceva per Gianni».
E del Var che cosa avrebbe detto?
«Papà era convinto che l’errore arbitrale facesse parte del gioco».
Ma alla fine avrebbe ceduto?
«Si sarebbe adeguato. A malavoglia».
E si sarebbe rassegnato anche al divieto di fumo?
«No. A quello no. Per lui fumare era una dimostrazione di vitalità».
Aveva addirittura una teoria «scientifica» secondo cui il fumo «fa bene».
«Credo che, paradossalmente, ne fosse convinto. Del resto, non se n’è andato certo per colpa del fumo».
L’addio in un maledetto incidente stradale.
«È morto, a 73 anni. Ma come un ragazzino di ritorno dalla discoteca».
Nel suo caso era una cena con gli amici.
«Mangiare bene e bere meglio. In buona compagnia. Il rito della convivialità eno-gastronomica era la sua seconda religione. La prima era il lavoro».
Un mestiere che interpretava all’insegna dell’originalità letteraria. Fatta di neologismi, aneddoti, immaginazione.
«Ho cercato di raccoglierli in un vocabolario di ricordi declinato attraverso i modi di dire, le metafore, i soprannomi che facevano parte di un universo espressivo fantasmagorico».
Senza dimenticare le doti dell’uomo e del pater familias.
«Un padre affascinante. Noi figli ci siamo nutriti tanto della sua frequente assenza quanto della sua saltuaria presenza».
Stargli accanto è stato un bel vivere.
«Io, quando sono diventato più grande, ho avuto la fortuna di accompagnarlo in tanti viaggi. Erano giornate esaltanti. Tra articoli (perfetti) scritti in pochi minuti e tavolate pantagrueliche dove lui aveva sempre lo stesso ruolo: mattatore».
Ma il top, Brera, lo raggiungeva da scrittore o da oratore?
«Alla macchina da scrivere era imbattibile. Ma quando cominciava a parlare calava un silenzio irreale. Aveva un carisma eccezionale».
Se Gianni leggesse il libro che lei gli ha dedicato, sarebbe d’accordo su tutto?
«Forse una cosa gli avrebbe dato fastidio».
Quale?
«Il capitolo in cui faccio cenno al suo rapporto con la Fede».
Non era credente?
«No. Ai funerali rimaneva sempre fuori dalla chiesa».
Come le è venuta l’idea del libro?
«Sono l’ultimo rimasto della nidiata di Gianni Brera, ho una responsabilità».
Quale?
«Sono spesso sollecitato a raccontare qualcosa di originale e vero sul mondo di mio padre che altrimenti sparirebbe. Quando me l’ha chiesto mia moglie, ho obbedito con l’unico imperativo che è possibile rivolgere a una signora: Comandi, farò quel che potrò».
Quando Gianni è morto, lei ha inviato una bellissima lettera a «Repubblica» e a Gianni Mura.
«Repubblica è il giornale che papà aveva nel cuore e Gianni Mura era il suo epigone in termini di bravura e fervore professionale».
Mura era considerato l’erede di Brera.
«Un’eredità pesante ma pienamente meritata».
Del Brera romanziere conosciamo tutto, ma è vero che Fellini lo voleva in «Amarcord»?
«Sì. Voleva affidargli il ruolo del nonno erotomane».
Per fortuna non accettò.
«Rifiutò per impegni di lavoro».
Era un tombeur de femmes?
«Gli piacevano le donne e lui piaceva alle donne. Ma senza assilli».
Gianni apparteneva a una generazione che, al bar, non risparmiava battute oggi ritenute politicamente scorrette.
«La sindrome imperante del politicamente corretto lo avrebbe fatto infuriare. L’ipocrisia del buonismo lessicale è l’opposto del suo modo di esprimersi».
Qual è l’aggettivo breriano che la diverte di più?
«Sorbonagri».
Cioè?
«Da Sorbona. Vale a dire i saputelli che se la tirano da sapienti. È stato l’ultimo neologismo partorito dal papà prima del suo addio».
Era anche specializzato nel battezzare soprannomi. Dica i suoi favoriti...
«Il primo in assoluto fu Duraselce».
Alias?
«L’uomo preistorico».
Passiamo ai personaggi famosi.
«Gigi Riva (Rombo di Tuono); Paolo Pulici (Puliciclone); Giovanni Lodetti (Baslèta, per via del mento pronunciato); Ruud Gullit (Simba, leone); Gianni Rivera (Abatino); Osvaldo Bagnoli (Schopenhauer); Giacinto Facchetti (il grattacielo di Treviglio); Lele Oriali (Gazzosino, ma se giocava bene veniva promosso Piper); Claudio Gentile (Baron Tricche Tracche); Josè Altafini (Conileone); Maradona (il Divino Sgorbio); Fabio Capello (Euclideo)».
Dei «sorbonagri» abbiamo già detto, qualche altro epiteto offensivo?
«Margniffone».
Che sta per?
«Dal dialetto milanese: imbroglione, colui che marfigna o fufigna».
Ha detto che spesso accompagnava suo padre nelle trasferte. Mi racconta una giornata-tipo di Gianni Brera?
«Una serie mi è rimasta impressa. La racconto anche nel libro».
Partiamo...
«Ore 13. Ritrovo a Milano in via Cesariano, casa sua. Problemi di digestione provenienti dalla nottata. Si apre una bottiglia di whisky, ne annusa il contenuto, ma non lo assaggia; colazione leggera annaffiata da autentica Bonarda».
Si entra in auto, destinazione il «Bentegodi».
«Lungo il tragitto scrive, a mano, un articolo sul miracolo del Verona di Bagnoli. Comincia a sorseggiare il whisky precedentemente aperto, e ne parte una buona metà. Ma la cosa più grave è che alla bevuta partecipo anch’io che sono l’autista».
Andiamo alla parte «lavorativa» della missione.
«Ore 17, intervista a mister Bagnoli. Due ore dopo siamo a cena».
Alle ore 19 già si mangia?
«Siamo seduti al ristorante Ai Dodici Apostoli, il pezzo è già stato inviato, e quindi ci concentriamo sulla cena luculliana, intervallata da toscano e pipa».
A quando il ritorno in hotel per il meritato riposo?
«A letto presto. Ma con ulteriori sigarette nella notte, almeno una quindicina, e qualche sorso di whisky seduto di traverso sul letto».
La mattina si torna a Milano?
«No, c’è la partita da vedere e poi un altro pranzo sempre Ai Dodici Apostoli. Nel pomeriggio rientro verso casa. Ma con deviazione su un altro indirizzo dove andrò a riprenderlo verso mezzanotte. Un’amica, mi sembra di aver capito».
Quando Gianni è morto, nessuno ne ha parlato male.
«Non c’è stata una virgola ostile, non abbiamo trovato altro che parole di affetto e amicizia, anche negli articoli dei colleghi più critici verso le concezioni sportive di Giovanni. Solo riflessioni, come quando muore uno buono e giusto».
Gianni era davvero «buono e giusto»?
«Aveva un carattere ruvido. A volte non capiva che certi suoi atteggiamenti potevano lasciare il segno, ma non era un uomo portato a cattiverie e rancori».
«Con quella bocca può dire ciò che vuole», gli disse una volta Piero Chiambretti.
«Lo aveva intercettato allo stadio per prenderlo un po’ in giro. Ma quando tornò a casa papà non era per nulla risentito, e commentò: Quel Chiambretti è ragazzino simpatico e intelligente».
Per Joann, sotto i sessanta, erano tutti «ragazzini».
«Metteva al loro servizio la sua straordinaria memoria, la sua logica, la sua capacità di ordinare il caos con lo stile».
Ma spesso ci andava giù pesante...
«Era come se dicesse al tempo stesso: io sono un maestro delle parole, ma non devi offenderti per le mie parole. A volte era come se dicesse: Ti voglio bene, stronzo!».
Sui principi basilari del comportamento, nessuna deroga.
«L’onestà innanzitutto. Le tasse si pagano. I debiti si saldano subito. La parola si mantiene o non si dà. L’invidia serve a spingerci a migliorare nell’emulazione dei migliori. Siamo al mondo per servire gli altri attraverso il nostro lavoro».
Brera e la guerra.
«Ci è passato attraverso, però senza uccidere nessuno».
Ma lasciandoci un pezzo di naso...
«La raffica di un soldato tedesco».
Un uomo di successo. Con a fianco, la «dolce Rina».
«Mamma è stata una figura determinante per la costruzione della carriera di papà. Lo ha amato da ragazza, da giovane donna, da madre e da vecchia. Ma qualche volta lo avrebbe pure preso a schiaffoni».
Natale si avvicina, ci lasci con gli auguri di Gianni Brera.
«Ogni anno ripeteva la stessa frase: Buon Natale agli amici che restano. Buon Natale a tutti».