il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2021
Prévert e il Gruppo d’Ottobre
Era difficile incontrare Jacques Prévert senza la sua cigarette in bocca. “Il fumo non è un vizio – confessava sornione – ma un piacere”. Le volute del fumo, così fluttuanti e morbide che fortificavano la sua figura di eterno ragazzo un po’ timido, gli erano anche d’ispirazione per trovare le parole, anch’esse fluttuanti e morbide delle sue poesie eterne. Non è perciò difficile immaginare che sul grande tavolo da lavoro nel suo studio dietro il Moulin Rouge, zeppo di libri e con alle pareti disegni degli amici Miró e Picasso, i fogli vergati dalla sua grafia tondeggiante con poesie immortali come I ragazzi che si amano (che “si baciano in piedi/Contro le porte della notte”) o Questo amore (sì, quello “Bello come il giorno/ Cattivo come il tempo/ Quando il tempo è cattivo”) siano impregnati di piacere, di fumo, di vita. Del resto, non amava che lo si definisse poeta – posto che per lui ogni sognatore era di per sé un poeta – ma preferiva proclamarsi ironicamente un artigiano della parola che scriveva della vita per procurarsi e procurare piacere.
Prima, infatti, del grande poeta nazionale – il suo esordio con la silloge Parole, che lo aureola nell’immediato al successo popolare, risale al 1946 –, prima dunque che i suoi versi finissero sui muri delle città o in bigliettini dentro l’incarto di certi cioccolatini, Jacques si dedicò alla scrittura in modo totale già da giovane. Meno nota, almeno rispetto alle liriche o all’impegno nel cinema, è la produzione teatrale di Prévert. Ed esce oggi per le meritevoli Edizioni Primavera Piccole pièce, una raccolta di cinque testi inediti che si leggono in un unico piano sequenza come fossero cinque racconti perfetti. Il titolo occhieggia al fatto si tratti di teatro per ragazzi, ma basta leggere queste fulminanti e crudeli scene (nella luminosa traduzione di Gabriella Bosco) per ritrovare gli elementi che rendono Prévert così riconoscibile quale cantore d’amore, certo, ma anche di rabbia e disperazione.
Anarchico, anticlericale, maledetto alla maniera novecentesca, bohémien sui generis, nelle sue parole fu capace di cogliere la malora del suo tempo. Jacques, infatti, dopo l’avventura surrealista – quando cioè, negli anni Venti del secolo scorso frequenta André Breton, Raymond Queneau, Antonin Artaud ed entra a far parte della corrente dei surrealisti – ebbe un apprendistato civile e politico di stampo comunista, nel senso più letterale e alto del termine. Dopo un litigio con Breton, negli anni Trenta entra infatti nella compagnia teatrale “Gruppo d’Ottobre”, della Federazione del Teatro Operaio, che prendeva il nome dalla Rivoluzione d’ottobre in Russia. Una specie di antiteatro militante, di strada, che rifiutava il canone borghese e voleva mettere in scena la vita quotidiana degli ultimi, denunciare i mali sociali. Per loro e la loro urgenza scrive canzoni, come l’inno operaio Marche ou crève (tr. Marcia o crepa), testi quali La Pêche à la baleine contro il patriarcato o La Bataille de Fontenoy in cui esprime il suo antimilitarismo. Il Gruppo d’Ottobre, però, parlava anche ai più giovani, li educava al potere eversivo della parola. A questo indirizzo, dunque, sono dirette le pièce che troviamo raccolte nel volume che con la loro crudeltà, i paradossi, la magnifica distanza dal politicamente corretto si rivelano testi per tutti. Scorgiamo, allora, la lotta alla schiavitù dell’estetismo oggettivo in Il bel bambino, una fulminante scenetta in cui l’arrivo tanto atteso del figlio del Signor Ginocchio lascia tutti senza parole, quando a presentarsi è una creatura a due teste; per non parlare del rovesciamento, o per dirla in termini moderni “la fluidità”, dei ruoli e dei generi – caro a Shakespeare se non già a Euripide – di Un dramma a corte, che lampante tiene la climax pulp e si rivela solo nelle battute finali: mentre l’attenzione è tutta indirizzata al re che sta per essere assalito e ucciso dal popolo e la principessa Marina resta sempre silente e di spalle, il sovrano deve confessare un segreto alla sua erede: “Marina, troppo a lungo ho tenuto il gran segreto, ascolta l’atroce verità. Marina, tu non sei mia figlia. Tu sei mio figlio…”. La principessa si gira e rivela una folta barba nera.
Eppure, dietro animali, re, fantasmi e amanti le vite che racconta Prévert sono le stesse incontrate a Rue de Seine, sulle panchine delle Tuileries, nei bistrò, nelle squallide pensioni di Clichy, sui lungosenna, là dove albergano amore e miseria. Poi l’ironia corrosiva, il calembour brillante, trasformano questa umanità sradicata in poesie, sceneggiature (citiamo almeno Les enfants du paradis di Marcel Carné) e pièce teatrali. Perché ciò che Prévert ha sempre offerto, ciò in cui ha sempre creduto, è una via alla felicità. In una delle ultime interviste concesse prima di ritirarsi malato nel suo ultimo rifugio a Omonville-la-Petite, piccolo borgo di case in pietra nella bassa Normandia, Prévert disse circondato da un giardino fiorito: “Bisognerebbe sempre tentare di essere felici, non fosse altro che per dare l’esempio”.