il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2021
Intervista ad Aung Myo Min. Parla della Birmania
Sono passati nove mesi dal colpo di stato in Myanmar. La repressione ha fatto più di 1.200 morti e 7.250 persone sono state arrestate, incriminate o condannate, secondo l’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici. Il mese scorso, la leader birmana Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, 76 anni, è apparsa per la prima volta in tribunale. Il 12 novembre, il giornalista statunitense Danny Fenster, 37 anni, dichiarato colpevole di violazione della legge sull’immigrazione e incoraggiamento al dissenso, è stato condannato a 11 anni di prigione. Fenster, caporedattore della rivista Frontier Myanmar, era stato arrestato all’aeroporto di Yangon a maggio mentre cercava di lasciare il paese. Sarebbe dovuto ricomparire in tribunale il 16 novembre per altre due accuse, sedizione e terrorismo, per le quali rischiava l’ergastolo, ma l’ex ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU, Bill Richardson, ha annunciato di aver ottenuto il suo rilascio. Lunedì Fenster era in viaggio per Stati Uniti. I giornalisti indipendenti vengono braccati e le poche informazioni che filtrano indicano che il Paese, colpito da una grave crisi economica e sanitaria, è scivolato nella guerra civile. Intanto, il Governo di unità nazionale birmano (NUG) in esilio, formatosi dopo il golpe del 1mo febbraio, sta organizzando la resistenza, tanto in Myanmar che all’estero. Il suo ministro per i Diritti umani, Aung Myo Min, è stato di recente a Parigi per incontrare dei rappresentanti del ministero degli Esteri francese e dei parlamentari, oltre che la comunità birmana residente in Francia. Il 55enne appartiene alla generazione del 1988 insorta contro un’altra dittatura militare. All’epoca studente, Aung Myo Min si era unito alla resistenza al confine con la Thailandia, come migliaia di giovani birmani. È a quel punto che ha cominciato a militare nel Fronte democratico degli studenti birmani. Trentatré anni dopo, Aung Myo Min, che era tornato in patria nel 2012, dove ha guidato l’ONG Equality Myanmar, è costretto a rivivere l’esperienza dell’esilio.
Qual è la sua missione come ministro dei Diritti umani nel governo birmano in esilio?
È una missione molto vasta. In primo luogo, il mio compito è di documentare i casi di violazione dei diritti umani perché venga fatta giustizia in futuro. Quindi, devo fare in modo che le prove raccolte vengano utilizzate a beneficio di azioni internazionali, in modo che la responsabilità degli autori venga un giorno riconosciuta. Infine, mi assicuro che i principi dei diritti umani vegano rispettati in tutte le politiche del NUG. Il nostro principale obiettivo è che vengano interrotte le forniture di armi al regime e bloccati tutti gli aiuti, le fonti di finanziamento e i commerci che arricchiscono e rafforzano il potere dei militari. Dobbiamo inoltre porre fine alla cultura dell’impunità in Myanmar. Prenderemo tutte le misure necessarie per portare i militari davanti a un tribunale internazionale indipendente.
Qual è lo scopo della sua visita a Parigi?
Ho voluto incontrare i membri del governo francese perché il NUG venga finalmente riconosciuto come il governo legittimo del Myanmar. Siamo consapevoli che la questione è delicata, che la Francia non può decidere da sola e che qualsiasi decisione sarà presa di concerto con gli altri Stati europei. Ma poter discutere e avere incontri ufficiali come questo è importante per noi. L’essenziale è che non venga riconosciuto come legittimo il governo dei militari.
Che avrebbe detto ai rappresentanti di Total, azienda francese criticata per la sua presenza in Myanmar nel settore energetico, se avesse avuto la possibilità di incontrarli?
Total ha spiegato di voler versare alle associazioni che lavorano per i diritti umani in Myanmar l’equivalente delle tasse che l’azienda è tenuta a pagare alla giunta. Quando l’ho sentito, ho pensato che fosse un segnale positivo. Tuttavia, a guardare bene, mi sono accorto che la cifra costituiva solo un’infima parte di quanto Total guadagna dal giacimento offshore di Yadana che sfrutta. Mi fa pensare che si tratti più un’operazione di comunicazione dell’azienda per edulcorare la sua immagine che di un’azione reale per fare pressione sui militari. Allora chiediamo a Total di smettere di versare anche un solo dollaro alla giunta birmana, perché dare soldi a loro vuol dire sostenere genocidi e crimini contro l’umanità.
Che ruolo può svolgere la Cina nella crisi birmana?
La Cina è un vicino potente e molto influente per via della sua presenza commerciale in Myanmar. Siamo pronti ad avere relazioni diplomatiche con tutti i governi, purché dimostrino un impegno sincero nei confronti della democrazia e degli interessi del paese, e a discutere con loro per trovare l’alternativa migliore al governo brutale dei militari. È importante avere discussioni informali con la Cina. È quanto già stiamo facendo attraverso i parlamentari della Lega nazionale per la democrazia (Lnd, la formazione di Aung San Suu Kyi, ndr), che hanno istituito il Comitato di rappresentanza parlamentare. Stiamo cercando di rafforzare questo canale di comunicazione. Inoltre, la Cina ha buoni rapporti con l’Asean, l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, che può trasmettere i nostri messaggi e le nostre idee a Pechino.
Siete soddisfatti della posizione assunta dall’Asean?
La decisione dell’Asean di non invitare il capo della giunta, Min Aung Hlaing, al suo vertice annuale di fine ottobre è stata per noi una svolta importante, perché fino a quel momento l’organizzazione regionale aveva portato avanti una politica di non ingerenza e, data la sua politica di impegno costruttivo con il Myanmar, aveva evitato di affrontare i temi delicati. È ormai chiaro che la questione del Myanmar non riguarda più gli affari interni ma assume una dimensione regionale. Questo ha delle conseguenze sugli altri paesi di frontiera, tanto che si parli di Covid-19 che di diritti umani e delle conseguenze delle loro violazioni. In qualità di organizzazione regionale, l’Asean deve fare di più per preservare la sicurezza e la stabilità della regione intervenendo su questi temi, nel modo più determinato possibile.
Il governo birmano sotto Aung San Suu Kyi è stato criticato molto per la sua gestione della questione dei Rohingya. Se ne sta occupando?
Certo. La questione dei Rohingya è sempre stata nel mio cuore perché mi batto da sempre per la difesa dei diritti umani. Quindi, quando sono stato nominato in questo governo, mi sono chiesto cosa avrei potuto fare per loro. Il primo testo su cui sto lavorando riguarda la politica nei confronti dei Rohingya. Ma non lo scriverò da solo. Sarà il risultato di una lunga serie di consultazioni, poiché si tratta di una questione che riguarda tutte le comunità. Il mio lavoro è di ascoltare, consultare tutte le parti interessate, per poter definire quali sono le soluzioni migliori. È una posizione senza precedenti, poiché il Nug riconosce tanto l’esistenza dei Rohingya quanto i crimini che hanno avuto luogo negli ultimi 20 anni. È importante definire le responsabilità per poter portare il caso davanti alla giustizia in futuro. È anche necessario abolire la legge del 1982 sulla cittadinanza, sulla base della quale i Rohingya non sono più stati riconosciuti come uno dei 135 gruppi etnici del Myanmar e sono diventati apolidi. È un testo discriminatorio. Ci impegniamo inoltre a fare tutto il necessario per mettere in atto alcune delle raccomandazioni emesse dall’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per raggiungere la pace nello stato del Rakhine, presentate nel 2017 nell’ambito della commissione consultiva sul Rakhine presieduta da Annan. Continuo a consultare i diversi gruppi di Rohingya all’interno del paese, nei campi di rifugiati e ovunque nel mondo. Il mio ministero ha del resto nominato un’attivista Rohingya, molto rispettato, Aung Kyaw Moe, all’interno del nostro comitato consultivo. Il suo ruolo è molto prezioso, ci consiglia e ci fornisce le linee guida per andare avanti in questo processo.