il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2021
Il flop del treno europeo
C’era aria di festa il 2 settembre alla stazione Santa Apolonia di Lisbona. Il primo treno europeo, “Connecting Europe Express”, stava per partire dal Paese più a ovest dell’Ue per cominciare un tour promozionale attraverso 27 capitali europee e celebrare così il 2021, “anno europeo del treno”. “La ferrovia è il futuro dell’Ue, il nostro modo per frenare il cambiamento climatico e costruire trasporti a zero emissioni”, diceva la commissaria ai Trasporti Adina Vălean, senza sapere, forse, che proprio la capitale portoghese è sconnessa in treno, oggi, dal resto d’Europa.
L’operazione di marketing, attentamente studiata dalla Commissione, si è rivelata un boomerang. È vero che il treno consuma solo l’1,5-2% delle emissioni nocive dei trasporti (il 29% del totale di CO2) contro il 71% della strada (12% aerei e 14% navi) e il Green Deal chiede ai trasporti di abbattere il 90% di CO2 entro il 2050, ma un treno europeo capace di sostituire aereo e auto, oggi non esiste. Per attraversare 33 frontiere, lo “Europe Express” ha dovuto cambiare 55 locomotive e altrettanti macchinisti, accumulando ritardi in ogni stazione: quando dopo 36 giorni il treno della speranza è entrato nella Gare de l’Est, a Parigi, nessuno aveva più voglia di sorridere.
“La rete ferroviaria europea è un patchwork inefficace”, scrive la Corte dei Conti Ue attestando la mancanza di coordinamento tra Stati e aziende. “In realtà non c’è mai stata un’età d’oro delle ferrovie – dice Jon Worth, attivista, esperto di treni – la situazione è stata sempre brutta”. Solo che vent’anni fa c’erano 6.000 km in più di ferrovie, esistevano treni notturni per lunghe distanze, molte capitali europee erano collegate tra loro: oggi bisogna addossarsi cambi e costi altissimi per viaggiare in treno. I dati sono desolanti: solo il 6% dei passeggeri e il 18% delle merci viaggiano su rotaia. Secondo Greenpeace, delle 150 rotte aeree europee più trafficate, solo 50 sono collegate dal treno.
“A parole è stata sostenuta la ferrovia”, dice Michael Cramer, presidente della Commissione Trasporti all’Europarlamento tra 2014 e 2017. Vent’anni fa, alla fine degli anni 90, Bruxelles lanciava il primo pacchetto ferroviario: dopo aerei, Tlc, energia e poste, si voleva creare un mercato unico dei treni e rompere con la logica dei monopoli. Intanto, la priorità politica era agevolare le auto e gli aerei.
Secondo i dati Ocse, rielaborati da Investigate Europe, tra il 2000 e il 2019 gli Stati membri più Regno Unito, Norvegia e Svizzera, hanno speso 843 miliardi di euro per le infrastrutture ferroviarie e 1.341 miliardi per quelle stradali. Ci sono delle eccezioni, come l’Alta velocità in Italia, costata da sola 42 miliardi, il doppio di Francia o Germania. Ma anche qui la strada ha ricevuto di più: 123 miliardi contro 105 per il treno. E poi a differenza delle linee aeree – aperte alla concorrenza low cost o privatizzate – “c’era un consenso tra gli Stati a non attaccare i monopoli delle società ferroviarie”, racconta Jean-Arnold Vinois, capo Unità Treni alla Commissione tra il 2000 e il 2006. Regnava “una mentalità da fortezza”, aggiunge il britannico Neil Kinnock, all’epoca commissario ai Trasporti. Il sistema ferroviario “dopo la seconda guerra mondiale rappresentava il dna di uno Stato, nessuno voleva rinunciarvi”, dice Karel Vinck, primo coordinatore del sistema ERTMS. Quando da Bruxelles è arrivato il via libera alla liberalizzazione, i colossi hanno solo cambiato casacca. I grandi paesi – Germania, Francia, Italia – hanno creato delle holding al cui interno ci sono sia l’infrastruttura che l’operatore dei treni (in Italia RFI e Trenitalia sotto il cappello di FS), nello stesso gruppo e sempre in mano pubblica, ma con una mentalità privata, per cui le rotte meno commerciali sono state via via cancellate.
Anche l’industria, concentrata nella francese Alstom e nella tedesca Siemens, ha aiutato: “Ai due lati della frontiera franco-tedesca, gli ingegneri sono collusi con le compagnie ferroviarie e proteggono i propri mercati con regole tecniche specifiche, vendute come necessarie per la sicurezza”, spiega Vinois. Molte fonti hanno confermato che tra Parigi e Berlino esisteva un “patto di non-agressione”, confermato con esempi concreti anche da Hans Leister, capo della filiale tedesca di Sncf, Keolis: “Le compagnie ferroviarie non attaccherebbero i mercati nazionali dell’altro”. Ancora oggi i treni tedeschi non circolano in territorio francese e viceversa.
Al momento dell’apertura del mercato c’erano 23 sistemi ferroviari diversi in Europa. L’agenzia ferroviaria europea (ERA), doveva abbattere gli ostacoli tecnici, ma dopo quasi vent’anni di regolamenti, avvertimenti e raccomandazioni, l’ERA scrive nel suo ultimo report annuale: “Nell’ultimo decennio non si sono fatti passi avanti nell’interoperabilità dei treni”. “Le aziende non pensano in termini europei”, ammette il direttore dell’ERA, Josef Doppelbauer: “Quando sollevo la questione qui in Francia, sento dire: dobbiamo concentrarci sull’altro 95% del nostro business, quello nazionale”.
La storia del Sistema europeo di gestione del traffico ferroviario (ERTMS) è il perfetto esempio del protezionismo nazionale. Finanziato dal 2007 dalla Commissione con 4 miliardi di euro, ERTMS potrebbe assicurare un sistema tecnico unico dei treni, evitando alle locomotive di cambiare sistema quando cambiano Paese. Ma è un sistema in più rispetto a quelli esistenti, costa 250 mila euro a locomotiva e i 3 grossi player industriali – Alstom, Siemens e l’italiana Hitachi – ne hanno fabbricati 3 diversi. Ora l’Ue ha inserito nell’ultimo pacchetto ferroviario l’obbligo di adeguare tutti i treni con l’ERTMS entro il 2050, ma per molti paesi non è una priorità. Intanto l’Eurostar da Londra a Amsterdam cambia 9 sistemi di controllo e il Thalys, da Parigi a Colonia, 7 locomotive diverse. In più, ogni volta che si passa una frontiera, il macchinista deve cedere il posto a un collega locale perchè nei treni c’è l’obbligo di parlare la lingua del Paese.
Anche comprare un biglietto per viaggi lunghi è un’odissea: in aereo basta qualche clic e si trovano subito le migliori offerte, in treno no. E se anche esiste qualche sporadica piattaforma come “Trainline”, questa rimanda poi alle compagnie nazionali. Se si perde una coincidenza, si perde tutto, non c’è nessun accordo tra compagnie, né ci sarà mai visto che a maggio i governi Ue hanno annacquato il regolamento sui diritti dei passeggeri dei treni approvato dall’Europarlamento, che avrebbe obbligato le compagnie almeno a pubblicare orari e tariffe in modo non-discriminatorio e a prendersi carico dei biglietti transeuropei. Germania, Francia e Spagna si sono fermamente opposte e l’obbligo è scomparso.
C’è anche, però, chi sta investendo sui treni europei: la società pubblica austriaca OBB, nel 2016 ha comprato i vagoni letto alla tedesca DB, che nel frattempo aveva cancellato tutti i suoi notturni, e ora vanta 19 collegamenti notturni in Europa e un business crescente: nel 2019 OBB ha trasportato 1,5 milioni di passeggeri, il 10% in più dell’anno prima. L’attività ha generato un “leggero plus”, dice la compagnia, che non dichiara però quanto l’Austria la stia sovvenzionando. Ora però gli impegni del Green Deal premono sugli Stati: i sussidi “fossili” potrebbero passare alle tratte ferroviarie.
*Investigate Europe