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 2021  novembre 22 Lunedì calendario

Solo una donna su 7 aveva denunciato il suo assassino

Hanno subito tutto in silenzio e in solitudine, fino alla fine. Magari si erano rassegnate a quella vita, forse avevano semplicemente paura di parlarne, o forse non avevano alcuna fiducia nell’aiuto del mondo e del sistema Giustizia. Non lo sapremo mai, perché sono tutte morte. Quello che sappiamo è che non soltanto non avevano denunciato di subire violenza ma non ne avevano nemmeno mai fatto parola con nessuno.
Stiamo parlando del 63% delle donne uccise negli anni 2017-2018: nessuna di loro (e sono 123) aveva mai confidato a qualcuno di essere in difficoltà, di temere per la propria vita, di subire maltrattamenti. Mai una denuncia, appunto. Fondotinta per coprire i lividi, sorrisi per nascondere paura e tristezza e avanti così, fino all’ultimo battito di cuore.
Quel 63% è uno dei dati più sorprendenti della relazione appena approvata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio presieduta dalla senatrice Valeria Valente.
I commissari, aiutati da molti consulenti, scattano una fotografia ad alta definizione agli uomini che uccidono le donne e a tutto quello che avviene prima, dopo, attorno ai meri fatti di cronaca. Ma soprattutto, fanno il punto sulla risposta giudiziaria ai femminicidi nel nostro Paese: la relazione fra autori e vittime del reato, le indagini della polizia giudiziaria, quelle degli uffici delle procure, il sistema di protezione delle vittime (giudiziario, sociale, delle reti del territorio), eventuali denunce precedenti, i giudizi penali e le sentenze... Si scopre così che, nei due anni considerati, soltanto il 15% delle donne uccise (circa 1 su 7) aveva denunciato l’uomo che poi le avrebbe ammazzate, il rimanente 85% o aveva subito in silenzio o ne aveva accennato a persone a loro vicine.
Per questa indagine la Commissione ha chiesto alle Corti d’Appello, e ha studiato, tutti i fascicoli processuali degli omicidi di donne avvenuti nel 2017 e 2018. Totale: 273. Ma quando si può parlare di femminicidio? Si è presa in prestito la risoluzione del Parlamento europeo del 28 novembre 2019 secondo cui si definisce così la «morte violenta dipesa da motivi di genere» oppure (ha aggiunto la Commissione) per i casi «in cui l’uomo ha ucciso le figlie della donna con l’unica finalità di punire lei». Al netto degli omicidi volontari diversi, quindi, i casi di femminicidio sono stati 216, ma siccome per 19 procedimenti il presunto autore è stato assolto, il numero scende a 197.
Sono – erano – 197 donne che avevano figli, spesso molto piccoli e già spettatori di una violenza cieca: se ne sono andate lasciando 169 orfani e quasi la metà di loro aveva assistito a scene violente prima che la madre fosse uccisa, per non parlare di quei 29 sopravvissuti (il 17,2% e in gran parte minorenni) che invece hanno visto la madre morire.
Dagli interventi della polizia giudiziaria emergono «criticità», come le chiama il dossier della Commissione, che sembravano sepolte da tempo. Per esempio il fatto che «nei centri più piccoli in cui dovrebbe essere proprio il fattore della conoscenza personale ad aiutare nella lettura della violenza e del rischio», alcune delle donne uccise hanno chiesto aiuto alle forze dell’ordine «rappresentando la paura e la difficoltà di denunciare o la presenza di armi» e «sono state dissuase dal farlo», sono «state rassicurate e rimandate a casa». Di più: «in alcuni dei casi considerati le forze di polizia, non distinguendo tra violenza domestica e lite familiare, nonostante il tangibile terrore della donna, si sono limitate a “calmare gli animi”(come si legge testualmente nelle annotazioni di servizio)».
Ai pubblici ministeri la Commissione rimprovera, diciamo così, «una difficoltà a riconoscere la violenza nelle relazioni intime» e una «non adeguata conoscenza dei fattori di rischio».
Fra i consulenti voluti dalla Commissione c’erano anche i magistrati Paola Di Nicola Travaglini, Fabio Roia e Maria Monteleone. E soprattutto loro hanno messo a fuoco il passaggio sul linguaggio usato nelle sentenze e nelle archiviazioni.
«Spesso – dice la relazione – la pregressa condotta violenta dell’uomo viene definita “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, instabile...”, anche a fronte di precedenti denunce della vittima per gravi maltrattamenti.(...) Molte sentenze non assumono un’analisi di genere e tale mancata prospettiva rappresenta un limite. Ad esempio, le vittime di femminicidio vengono spesso chiamate per nome, gli imputati per cognome, così generando una discriminazione, anche linguistica e simbolica, non giuridicamente giustificabile; le vittime di femminicidio non sono descritte rispetto al loro contesto sociale e/o professionale, ma indicate come madri, mogli e figlie, cioè rispetto al loro ruolo familiare; quando svolgono attività di prostituzione vengono chiamate prostitute e non con nome e cognome, così vittimizzandole e stigmatizzandole».
L’inchiesta si chiude con una lista dei sogni, cioè possibili «correttivi delle norme vigenti». Uno fra i tanti: l’obbligo di applicare il braccialetto elettronico se si decide una misura diversa dal carcere.