la Repubblica, 22 novembre 2021
Zerocalcare accusato di essere troppo romano
«Credo che non leggerò più niente che rechi la sua firma». Immaginate un lettore di sessant’anni fa. Uno che legge i giornali, è colto, attento, segue la letteratura contemporanea. Ha preso in libreria, fresco di stampa, il romanzo di un trentottenne di talento, già molto noto. Il lettore prende carta e penna, e scrive all’autore per lamentarsi: vuole conoscere «i motivi, la necessità e il senso della abdicazione alla lingua che mostrano le sue opere in prosa e soprattutto l’ultima». La lettera e la risposta dell’interessato – Pier Paolo Pasolini – si trovano nel volume Le belle bandiere, appena riedito da Garzanti; e potrebbe tornare utile a un altro trentottenne di talento, Zerocalcare. A cui qualcuno ha consigliato di abbandonare il romanesco per «fare un salto di qualità». Nella valanga di commenti entusiastici sulla prima serie tv di animazione realizzata dal fumettista romano, Strappare lungo i bordi, in testa alle preferenze su Netflix, la variabile impazzita (e pretestuosa) ha a che fare con la marcata inflessione regionale dei personaggi: “doppiati” tutti dallo stesso autore, Zerocalcare, con l’eccezione dell’Armadillo, a cui presta voce – impeccabilmente – il romano Valerio Mastandrea.
Nella fiera permanente del sarcasmo e della mitomania social, la discussione ha preso la piega più ovvia: me contro te. Romano-romaneschi contro il resto del mondo; resto del mondo contro romano-romaneschi. «Ma come? Squid Game in coreano o Gomorra in napoletano stretto non hanno turbato nessuno», osserva un utente stupito dalla polemica in corso. A chi si è lamentato a gran voce di avere fatto ricorso ai sottotitoli per comprendere la serie animata di Zerocalcare, il Pasolini di sessant’anni fa risponderebbe che il romanesco «è un dialetto molto simile al fiorentino, comprensibile in tutta Italia, nel suo insieme». Aggiungendo: «Odio ogni normalizzazione dall’alto, ogni finalità restrittiva e coattiva. L’Italia è linguisticamente una torre di Babele». Amen.
Una torre di Babele in cui le polemiche sono vecchie anche quando sembrano nuove: i detrattori del romanesco possono vantare tra i pionieri il padre Dante, che definiva «squallida» la lingua di Roma, e un nobile alleato come il romanissimo e cosmopolita Moravia che la trovava greve quanto l’abbacchio in cucina. E c’è una tradizione di animosi pamphlettisti, disturbati dalle «pronunce aberranti» diffuse da una televisione effettivamente romanocentrica (una grande filologa come Maria Corti era quasi convinta che i moduli espressivi romaneschi rallentassero il ragionamento dei telespettatori). Indagando, nei primi anni Duemila, le ragioni di una «radicale caduta di prestigio da parte dell’italiano di Roma», Luca Serianni ha inserito anche lo stingere di una effettiva contrapposizione fra lingua e dialetto, l’accorciarsi di una distanza fra livelli del parlato. La “parlata”, appunto, con la sua tipica inflessione, “intonazione prosodica”. Quella di Zerocalcare che parla e fa parlare i suoi personaggi.
Strascicata, come l’ha definita Guia Soncini su Linkiesta aprendo il fuoco di pareri; e devo confermare, da conduttore della trasmissione di Radio3 sulla lingua italiana, “La lingua batte”, che a giudicare dal numero di email l’insofferenza per il dominio del romano nei mezzi di comunicazione è diffusa e crescente. Avranno un peso anche la percezione di Roma come città centrale ma opaca, incasinata, in affanno, un filo di anti-parlamentarismo? Soncini dice che i romani sono più indisponibili dei parigini alle critiche verso la loro città, e mi paiono due luoghi comuni (in quanto tali, con una parte di verità).
Ma il punto è che qui non si parla di comunicazione pura, ma di un oggetto artistico. E così come sarebbe impensabile Una vita violenta di Pasolini senza il suo romanesco “artificiale”, altrettanto lo sarebbero un Eduardo o un Troisi normalizzati, spinti all’italiano standard, doppiati o ri-doppiati come se quella cadenza, quel modo di dire – con le sue eventuali opacità – non fosse intanto e soprattutto un modo di sentire e di vedere.
La serie di Zerocalcare ha, come ormai i film che arrivano sulle piattaforme a ogni latitudine, ottimi sottotitoli (allenamento alle lingue, peraltro, che le generazioni più fresche prendono sul serio per uscire dalla zona di conforto del doppiaggio): non bastano? Eppure penso che certe frasi di Amarcord dette in riminese piuttosto stretto siano una musica, che aggiunge qualcosa al film, anche dove non arrivo a cogliere tutto, e che – per dire – sentire Franco Loi leggere in milanese le sue poesie fosse un’esperienza radicale, in cui precipitava il senso anche restando per me inattingibile senza traduzione. Forse la risposta definitiva su questo nuovo dibattito vecchissimo l’ha data Gadda rispondendo a un lettore allergico al dialetto come quello che protestò con Pasolini. Il dialetto, scrisse, si accorda più felicemente della cosiddetta lingua, alle urgenze dei personaggi. E offre quella «vivezza pittorica, quei liberi toni del parlato, quell’humour che arricchisce di armoniche sapienti e profonde lo schematismo cachettico delle idee seriose».