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 2021  novembre 22 Lunedì calendario

La guerra nello spazio

L’orologio della Storia torna indietro, fino all’attimo esatto in cui si è chiusa la Guerra Fredda. In quel momento, la competizione militare si era spostata verso una frontiera completamente nuova: lo spazio. Allora la tecnologia non era all’altezza delle ambizioni, oggi invece ci sono le capacità per portare il campo di battaglia fuori dall’atmosfera. Nel giro di un mese abbiamo visto due prove concrete di questa rivoluzione, che spazza via l’ultimo santuario: si può combattere ovunque. Concetti e strumenti sono quelli che vennero concepiti prima del crollo del Muro. Non ci sono vere innovazioni, ma la dimostrazione che oggi le star war sono una realtà: lo spazio diventa la dimensione per lanciare attacchi contro cui non esiste difesa. E così questa nuova corsa agli armamenti rischia di portare il mondo in un’era di insicurezza mai conosciuta prima.
Anzitutto perché tante nazioni dispongono di missili in grado di abbattere satelliti. Non è così difficile: gli americani realizzarono il primo test nel 1985, con un ordigno scagliato da un caccia F-15. Anche i russi hanno ereditato dall’era sovietica un arsenale di prototipi, incluso quello di un cannone in grado di sparare nello spazio, che vengono rapidamente aggiornati con sensori e computer miniaturizzati. Missili agganciati al ventre di aerei Mig 31; altri lanciati da batterie semoventi; satelliti killer posizionati in orbita fino al momento di entrare in azione. Pochi mesi fa hanno provato uno di questi astro-robot, che si è avvicinato a una stazione statunitense limitandosi a identificarla: gli sarebbe bastato avanzare di poche decine di metri per metterla fuori uso. Anche la Cina e l’India hanno sperimentato da tempo un ordigno balistico anti- satellite, mentre la Turchia vuole realizzarlo. E l’Iran millanta apparati in grado di deviare o accecare le vedette stellari.
Questa proliferazione moltiplica i pericoli. L’abbattimento di un singolo satellite, ad esempio durante una crisi tra India e Pakistan, può generare un’ondata di rottami devastante, tale da danneggiare qualsiasi apparecchio in un’ampia fascia di orbita. È la terribile lezione trasmessa dal missile russo della scorsa settimana, che ha frantumato un vecchio satellite sovietico in 1500 pezzi micidiali. Le prime analisi sembrano indicare che i tecnici di Mosca abbiano studiato l’impatto proprio per “pilotare” i frammenti in una determinata direzione, come nelle traiettorie di una partita di biliardo. E la nuvola di schegge si è trasformata in una rastrello letale, che continua a girare intorno alla Terra: pochi centimetri di lamiera possono mandare in tilt una centrale di telecomunicazione costata mezzo di miliardo di euro. O peggio: temendo lo scontro con i rottami, sulla stazione spaziale Iss è scattata l’emergenza e l’equipaggio si è rifugiato nella navetta di rientro. Una minaccia che proseguirà negli anni: delle 3.679 schegge create nel 2007 da un test cinese simile, ben tremila sono ancora in agguato.
Si tratta quindi di una potente arma asimmetrica, a svantaggio soprattutto dei Paesi occidentali che più dipendono dallo spazio per le comunicazioni e la navigazione. Nessuno dei 7.500 satelliti attivi è corazzato, anzi sono tutti delicatissimi. Per questo anche negli Stati Uniti sta cominciando a prendere piede un’idea francese: schierare nello spazio dei bodyguard, che facciano da scudo contro gli aggressori e in futuro li neutralizzino con armi laser. E sette nazioni, tra cui l’Italia, hanno varato un piano europeo per “blindare” le antenne spaziali. Il Pentagono però pensa a soluzioni più immediate: «Dobbiamo far sì che i nostri satelliti siano meno fragili e più difficili da trovare – ha spiegato mercoledì Nina Armagno, la prima donna generale della Space Force americana -. Bisogna potenziare i sistemi di avvistamento, aumentare le fasce d’orbita, usare satelliti più piccoli e sfruttare quelli commerciali in modo che sia più complicato per i russi bersagliare la nostra rete di allarme missilistico con un first strike».
Il termine usato da Armagno riporta proprio agli incubi della Guerra Fredda: il first strike, l’attacco a sorpresa per aprire il conflitto nucleare. Uno spettro cancellato da tre decenni, tornato a materializzarsi un mese fa con un’altra operazione, questa volta di Pechino. I cinesi hanno sperimentato una sorta di bombardiere spaziale, che sgancia una raffica di missili ipersonici. In linea teorica, può colpire qualunque continente senza che ci sia il tempo per reagire: gli ordigni atomici piomberebbero sulle città o sulle basi chiave prima di potere dare l’allarme. Il comandante delle forze armate americano Mark Milley ha dichiarato: «siamo molto vicini a un momento Sputnik», paragonandolo allo smarrimento degli Usa davanti al primo satellite sovietico. Un vero brivido. Perché c’è il timore di essere arrivati alle soglie di un confine ad altissimo rischio, dove ogni equilibrio del terrore sia impossibile. E la tentazione di un attacco apocalittico non venga più esclusa.