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 2021  novembre 21 Domenica calendario

Reportage da Dubai

Il vantaggio di non avere un passato è che pensi sempre al futuro. A mente libera». Per Anna, Dubai è tutta qui. Ci è arrivata nel 2015 per seguire il marito, che prima lavorava nella finanza in Svizzera e ora gli affari li fa qui. Follow the money. Dopo la pandemia, la corsa folle dell’emirato che nel dopoguerra contava 20 mila abitanti e ora è una metropoli da oltre 3 milioni di persone è entrata nel miglio che lo porterà a diventare hub del mondo. E il modello di sviluppo evolve. Dunque ancora finanza tradizionale, commercio, edilizia, industria, lusso. Ma ora anche fintech, digitale, industria green (nel 2050 gli Emirati Arabi Uniti saranno carbon free), missioni spaziali e un turismo destinato ad uscire dal target della fascia più alta di viaggiatori, che pure già ne fa la quarta meta più visitata del mondo dopo New York, Londra e Parigi. Dubai è in evoluzione verso una dimensione più accessibile al ceto medio, alla famiglia. Da vacanza se non per tutti, quasi.
Ed ecco allora un’offerta più larga: lusso, viaggiatori business e portafogli generosi per lo shopping e il divertimento, ma anche prezzi affrontabili, musei, un’idea di benessere non solo da grande magazzino. Percorso lungo, ma avviato. I segni già si vedono. E qui tutti, dal manager al tassista, hanno una certezza: «Se una cosa va fatta, a Dubai si fa in cinque minuti». Politica, ideologia, burocrazia, religione: tutto cede il passo agli affari.
La vetrina globale
È l’anno di Expo, inaugurato da poche settimane dallo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum. Nell’emirato dove si sono vaccinati tutti subito e il tampone vengono a fartelo in casa, brilla la vetrina dell’esposizione globale: il Covid è costato un anno di rinvio e una partenza ancora lenta sul fronte degli arrivi, ma tra i padiglioni non c’è l’ombra di un cantiere da finire o di un’eco della pandemia, al di là delle mascherine. «Se una cosa va fatta, si fa». Le contraddizioni però entrano anche qui. Il padiglione italiano pensato da Carlo Ratti e Italo Rota si stacca dagli altri: non vende un Paese, lo racconta. "La bellezza unisce le persone" è il claim: «È un padiglione narrativo, non espositivo - dice il commissario Paolo Glisenti -, trasmette l’idea di Italia, di creatività che lega memoria e futuro».
La copia in 3D del David di Donatello a grandezza naturale ha le nudità coperte: possono vedere la figura intera solo gli autorizzati ad accedere a una zona riservata, così hanno imposto le autorità locali. Un lampo di oscurantismo in una Dubai dove le maglie della legge islamica si allargano progressivamente e la prassi spinge i confini sempre più in là: convivenze possibili anche senza matrimonio, poligamia ormai dimenticata, alcol in quasi tutti i locali, la prima moschea progettata da un’architetta (la saudita Sumaya Dabbagh), donne nelle forze dell’ordine e ai vertici di grandi aziende, libertà sessuale e margini pressoché totali per gli immigrati occidentali, 15 mila dei quali italiani.
Turismo e arte
E italiano è il general manager del Burj Al Arab, la vela tempio del lusso, autoproclamato unico hotel a sette stelle del mondo. Ermanno Zanini, un passato al Four Seasons di New York e al Capri Palace, doveva rimanere solo qualche mese per il rilancio post-lockdown: «Poi mi sono innamorato di Dubai, del dinamismo, dell’idea di apertura e di poter realizzare grandi cose che si respira - racconta -. Non siamo in una democrazia, ma il sistema funziona. Dobbiamo riposizionarci, dare una dimensione più internazionale. Per farlo stiamo accogliendo personale dall’Italia e dall’Europa, ragazzi attirati dagli stipendi esentasse e dalle opportunità di crescita professionale. Dubai è meta tradizionale per asiatici e russi, ma ora ci sono le condizioni per intercettare un mercato più colto e sofisticato come quello europeo. La famiglia reale vuole questo».
Ecco allora che bisogna andare oltre lo shopping e i ristoranti di fascia alta. La strada emiratina dell’arte passa dalla collaborazione con i grandi musei, in sinergia con Abu Dhabi che ospita una sede del Louvre e presto avrà il Guggenheim, e dal fiorire di iniziative locali. In Alserkal Avenue, nata poco prima della pandemia, Dubai scopre l’ora del mecenatismo. La stessa famiglia che ha portato le linee telefoniche nell’emirato ora imita i modelli europei di rigenerazione urbana trasformando un vecchio insediamento industriale (era un marmificio) in una cittadella dell’arte che attira 600 mila visitatori all’anno: la Dubai del turismo per tutti.
Gallerie e artisti emergenti, cinema, manifattura di qualità (c’è anche Piaggio con l’icona Vespa), ristoranti fusion arabo-occidentale. Nemanja Valjarevic, serbo ed ex newyorkese, ha qui la sua bottega tessile dove prende dei kimono e li riadatta al gusto delle donne arabe. Inventa abiti in un pezzetto di mondo strappato al deserto e trasformato in un piccolo laboratorio cosmopolita: «Sapete perché sono venuto qua? Perché l’Europa e gli Stati Uniti pensano di essere il centro del mondo, ma ormai guardano al passato, mentre qui si pensa solo al futuro e c’è una chance per tutti». Ha trovato l’America.
Il sogno degli sceicchi
«Leave your politics at home, it’s only business» sorride Theodore Karasik, analista politico al Gulf State Analytics di Washington, sintetizzando lo spirito emiratino. Politica, religione, ideologia: tutto fa un passo indietro. Proprio come il deserto che deve progressivamente spostarsi più in là, in una città dove fino al 1930 non si faceva altro che raccogliere perle e ora si scia dentro i centri commerciali. E si va nello spazio: gli Emirati sono la quinta potenza a lanciare una sonda nell’orbita di Marte, per studiarne il clima per due anni.
Se l’Expo è la vetrina per dire al mondo che Dubai sta correndo verso la quarta rivoluzione industriale, l’avventura su Marte è il tratto di strada più evocativo: «Il primo passo è rafforzare il ruolo di hub del mondo, anche grazie alla posizione geografica a metà tra Occidente e Oriente e lungo la Via della Seta - spiega ancora Karasik -. Gli Emirati non sono una democrazia, l’opposizione non esiste, ma nemmeno un regime duro come l’Arabia Saudita, e le ombre dei rapporti con il fondamentalismo sono alle spalle».
Un messaggio di apertura al mondo: nel nome degli affari, nessuna preclusione. «Per questo i rapporti ora sono buoni sia con l’Occidente che con la Cina e ora, dopo gli accordi di Abramo, anche con Israele _ ragiona ancora Karasik -. Ma l’ambizione vera di Khalifa bin Zayed Al Nahyan, lo sceicco di Abu Dhabi che guida gli Emirati, è di diventare una vera potenza mondiale: industriale, commerciale, geopolitica, capace di dialogare alla pari con tutti. Gli investimenti nello spazio servono a dire anche questo: "Siamo capaci di fare di Marte l’ottavo emirato"».