Specchio, 21 novembre 2021
Lavori e non succede niente
Il lavoro ha perso di dignità e denaro, quindi si torna a emigrare, ricominciando da dove avevamo finito; è un cerchio che si chiude. Era già successo a chi ci ha preceduti, ci si mette in viaggio per cercare qualcosa che qui non c’è o non c’è più. Credo sia la felicità. Come famiglia discendiamo da emigrati (mio nonno italiano è morto ed è sepolto in Sud America), e i figli di questi hanno poi a loro volta avuto modo di tornare in Italia. I figli loro, nipoti dei primi espatriati, fra cui io, sono riusciti infine a restarci. Ma i figli nostri ora, proprio come avevano fatto i loro bisnonni, prendono di nuovo le valigie, le riempiono con quello che possono, e vanno via. Non sono più bagagli di cartone legati con lo spago, ma il concetto è lo stesso: puoi portarti dietro solo una parte dei tuoi affetti. Ogni trasloco è una perdita, ogni addio una mutilazione, ogni partenza ha un fardello fatto di oblio, e la zavorra più pesante è sempre quella invisibile. Si tratta della storia di molte famiglie come la mia, e me ne ricordo perché è da stolti restare nella propria vita personale e basta, credere come solo all’interno di questa debba compiersi per intero il nostro destino. Bisogna affacciarsi alla storia, abbracciare almeno le epoche che corrispondono alle generazioni con le quali siamo ci siamo sovrapposti, accavallati. Le facce delle quali si ha ricordo e sentimento, persone da cui si può avere una narrazione incarnata di ciò che è accaduto. Parlare del passato, all’interno della propria comunità familiare costituisce la più antica e nobile forma di cultura mai sperimentata dalla specie umana, e questa verte da sempre sul racconto orale. Se solo voi capiste la differenza tra la testimonianza che i nostri nonni possono farci della loro vita, e le notizie che del medesimo arco storico sono riportate in un documentario televisivo, scoprireste di trovarvi di fronte a due categorie completamente diverse del sapere: una è conoscenza, l’altra informazione. Quando mia nonna mi racconta della guerra o dell’emigrazione quello è un processo morale che attraverso una colleganza affettiva con chi narra fonda l’etica di chi ascolta, mentre quando leggi un articolo come questo ti limiti ad avere un semplice ragguaglio su certe cose, nozioni che dimenticherai al primo starnuto.
Nel racconto di un anziano c’è conoscenza principalmente perché chi trasferisce sa quello che dice, cioè la conoscenza ce la deve avere prima di tutto chi parla perché la si possa poi far transitare a chi ascolta. I veterani delle nostre comunità sono quindi un patrimonio vivente, e parlare con loro è avere accesso a l’unica forma di cultura ancora libera, non assoggettata a concetti strumentali di produttività, fatturato, prodotto interno lordo: «Voi vivete per acquistare, a noi non ci serve niente». La sera cenano con un piatto di verdura e un bicchiere di vino. Il racconto di questa gente recuperabile direttamente all’interno delle nostre famiglie dentro casa nostra, è avulso da ogni tipo di propaganda e di interesse, libero dal politicamente corretto, dalla menzogna degli ideali meritocratici del tipo: «Se ti impegni puoi farcela», ascoltati anche per bocca di presidenti americani insigniti col premio Nobel. Certo che se mi impegno ce la faccio, solo che non ho capito a fare che cosa. Si tratta di slogan al servizio della moderna disciplina del lavoro, fatti a sua stessa immagine, somiglianza e utilità. Ma adesso lavori lavori lavori e non succede niente.
Una volta i giovani si chiamavano come i loro nonni, proprio per creare a priori la possibilità che venisse mantenuto un legame fra queste due generazioni, fra le quali ce n’è una terza. E poi perché trionfasse l’individualismo è bastato smettere di mangiare insieme, di raccontarsi a vicenda, parlare senza fini di lucro, cose che da questo progresso sono considerate inutili. Per la società contemporanea tutto quello che sembra trascendente deve essere rinnegato perché incerto, e le tradizioni consolidate ignorate perché a matrice collettiva anziché privata. È la morte del sacro di cui parlava qualcuno. Gli antenati vedono con chiarezza la definitiva eclissi di ogni valore e speranza nelle moderne società industriali, votate al tornaconto, all’arricchimento, schiave del guadagno e del profitto. L’idea di paese sovrano è tramontata, traslata nel concetto di mercato, e nessuna nazione governa più a casa sua, il mondo globale è un’azienda acefala, i cui destini sono in mano a capitali senza bandiera. Che cosa sia stato dei nostri avi ancora precedenti non lo so, perché degli antenati di prima non è rimasta traccia, due guerre mondiali hanno provveduto a cancellare tutto. In mezzo a queste quattro generazioni, circa cento anni a oggi, non c’è stata solo la guerra però, c’è stata pure la Liberazione, la pace, la Costituzione. E proprio in questa c’è scritto che l’Italia avrebbe dovuto essere una Repubblica democratica fondata sul lavoro. E invece ha finito per essere fondata sullo sfruttamento del lavoro; l’era contemporanea del nostro paese vive sotto lo scacco dell’ennesimo tradimento. Mio nonno lavorava in fabbrica, ci andava col tram e faceva il gelataio, mia nonna stava a casa, hanno avuto sei figli e pagato sempre l’affitto: «Ma non lo capisci che oggi vai a lavorare, per comprarti la macchina, per andare a lavorare?». Parlano dall’alto di un sapere che è stato capace di salvare loro la vita, e che gli era stato insegnato dalla vita stessa, alla quale preme più di tutto di autoconservarsi. Di fronte ai processi disumani della società capitalistica, di fronte allo sviluppo tecnologico che ha creato il mito della rapidità e dell’efficienza, mi ricordo dei pensionati che avevano la senile abitudine di dormire con la valigia sotto al letto, perché può sempre succedere di doversi rimettere in cammino nella vita. Anzi sbaglia chi ha creduto di potersi fermare. L’esistenza ribolle di continuo, la storia è spesso violenta nelle sue maniere. L’uomo è nomade, la donna pure, altrimenti saremmo nati con le radici come gli ulivi. Per l’ennesima volta avevano ragione i vecchi: non è mai vero che la felicità ci viene incontro, siamo noi che dobbiamo inseguirla.