Robinson, 21 novembre 2021
Intervista a Fausto Curi
È uno degli ultimi sopravvissuti del “Gruppo ‘63”. Sullo scoccare dei 91 anni Fausto Curi riprende e sviluppa un’affermazione di Mallarmé: “La distruzione fu la nostra Beatrice e noi fummo costretti ad andare verso gli estremi”. Gli chiedo cosa il “gruppo” intendesse demolire. Probabilmente il caso, dice con una punta di stravaganza. «Noi fummo in un certo senso gli ultimi in grado di premeditare un delitto letterario e sentirci al tempo stesso portatori di qualcosa di nuovo».
Eravate come dei congiurati.
«Macché, tutto avvenne alla luce del sole. Marinetti aveva ucciso il chiaro di luna e noi spegnemmo il manto di stelle che sovrastava la letteratura italiana del dopoguerra».
Come arrivò a far parte del Gruppo ’63?
«Il contatto avvenne attraverso Luciano Anceschi, che era stato mio professore, e Il Verri, la rivista che lui fondò e alla quale collaboravo. Ero un po’ più giovane degli altri e se confronto il mio ruolo nel Gruppo ’63 con quello di Sanguineti e di Eco avverto subito una grande distanza».
La intimidivano?
«Quando parlavano loro due, il silenzio era assoluto. I loro discorsi diventavano subito delle vere e proprie lezioni con qualcosa di professorale, che Eco smorzava subito con l’ironia e l’umorismo, Sanguineti con l’acutezza delle sue intuizioni e delle sue argomentazioni. Arbasino e Manganelli erano invece artisti del dettaglio. Filippini geniale, chiassoso, arguto. Giuliani riflessivo e analitico.
Ascoltarli mi ha trasmesso il piacere del testo orale. Credo di avere imparato molto da loro, certamente goduto molto».
Non ha citato Nanni Balestrini.
«Sembrava un uomo freddo, una freddezza radicale, fisiologica che avvolgeva anche la sua poesia. L’ho sempre visto come un costruttore, anche quando poteva sembrare che distruggesse. Per Nanni la poesia è sempre stata più una cosa da fare che una cosa da dire. Una struttura, un edificio verbale. Non amava parlare in pubblico, gli piaceva intervenire nelle discussioni del Gruppo. La sua cultura mi faceva pensare al pittore più che al letterato».
Fu infatti un bravo autore di collages.
«Sapeva appropriarsi di testi e immagini altrui rendendoli qualcosa di profondamente suo. Aveva una gamma di interessi vasta. La sola cosa che evitavo con lui era parlare di politica. Lì, davvero poteva finire nel litigio.
Gli anni dell’esilio, quando riuscì a scappare in Francia evitando per un soffio l’arresto insieme ad altri leader dell’autonomia operaia, lo avevano segnato profondamente. Non avevamo un rapporto confidenziale. Ma un giorno, senza una ragione apparente, mi chiese se pensassi mai alla morte. “Qualche volta”, risposi. “Io sempre”, disse. Seppi poco dopo che era gravemente ammalato. Non fummo amici ma patii la sua fine. Fui invece molto amico di Sanguineti».
Forse Sanguineti ebbe più ammiratori che amici.
«È vero. Edoardo era coltissimo e di modi affabili con gli amici. Pronto ad infiammarsi se qualcuno cercava di infrangere i confini del suo territorio. Aveva ricostruito il mondo nella propria mente e non ammetteva che fosse diverso, tranne se qualcuno non lo persuadesse del contrario. Dormiva poco, viaggiava e lavorava tantissimo. A volte, incontrandolo, gli chiedevo come stesse, mi rispondeva invariabilmente: “sono stanco”. E continuava ad andare avanti».
Si dice che il Gruppo ’63 abbia svecchiato il panorama letterario, ma alla fine non ha prodotto un solo grande romanzo.
«Mi sembra che Capriccio italiano di Sanguineti, Tristano di Balestrini, Fratelli d’Italia di Arbasino, Hilarotragoedia di Manganelli siano buoni romanzi. Certo molto migliori, soprattutto sul piano culturale, dei vari premiati che si sono succeduti allo Strega o al Campiello».
Mi pare di capire che i romanzi non la eccitano troppo.
«La letteratura per me è costituita dalla poesia, dalla critica, dalla saggistica. Con qualche eccezione narrativa: Proust, Joyce, il bellissimo Le affinità elettive di Goethe, Il codice di Perelà di Palazzeschi. Ma da tempo ho rinunciato a leggere i romanzi».
Perché?
«Per me la prosa narrata risiede prevalentemente nei saggi sia letterari che filosofici. I miei “narratori” sono Kant, Marx, Nietzsche, Hedegger, Freud, Serra, Contini, Barthes, Benjamin. La densità intellettuale, la creazione di un’attesa che ho trovato in loro non l’ho incontrata in Balzac e in Tolstoj».
Non ha il dubbio di essersi perso qualcosa?
«Forse, ma agli amori non si comanda».
Chi ha amato?
«Ai romanzieri ho preferito le donne, e in particolare mia moglie. Gli scrittori non si amano, semplicemente si leggono. Quando mi è capitato di leggerli più di una volta voleva dire che ne avevo bisogno, che mi aiutavano a crescere e a formarmi. A costo anche della sofferenza che mi procuravano. Come nel caso di Finnegans Wake, opera faticosa e noiosa, che dovevo leggere perché avrebbe contribuito al mio arricchimento».
Com’erano i rapporti tra Eco, grande sponsor di Finnegan Wake, e Sanguineti?
«Erano dotati di una prodigiosa intelligenza. Tanto ironica una quanto tagliente l’altra. Si rispettavano ma non credo che si amassero. Troppo radicalmente diversi. Quando Eco scrisse un coltissimo articolo su Laborintus, citando Carpocrate, Sanguineti non ne fu affatto contento».
Cosa lo infastidì?
«La velata accusa di gnostico che divideva il mondo tra il bene e il male, la luce e il buio. Per un materialista era abbastanza irricevibile. Ho sempre parteggiato per Edoardo, ma Eco ha portato in Italia, soprattutto dagli Stati Uniti, molta cultura moderna di prima mano. Opera aperta è stato un libro importante e utilissimo».
E de “Il nome della rosa” che pensa?
«Non l’ho letto. Come non ho letto moltissimi altri romanzi».
Neppure la curiosità di capire il senso di quel salto nella narrativa?
«E cosa c’era da capire dopo che una decina di milioni di copie avevano invaso il pianeta terra? Sono sicuro che se andassimo su Marte non troveremmo tracce di vita ma una copia de Il nome della rosa sì».
Il successo non la incuriosisce?
«Il successo è fatto di meccanismi arcinoti con l’aggiunta di una punta di mistero inspiegabile».
Cosa pensa del nuovo?
«Il suo avvento in letteratura incrina le fondamenta di quello che gli preesiste e provoca una serie di choc benefici. Il nuovo è ciò che abolisce lo stanco presente e rende presente il futuro».
E la tradizione?
«Non pretende che si parli di lei, la tradizione ha bisogno di essere coltivata e praticata. Esistiamo perché esiste la tradizione. È la nostra madre. Il nuovo non può cancellarla, deve solo integrarla e mutarla».
Non vi comportaste così, intendo voi del Gruppo ’63,
con la letteratura dei Bassani e dei Cassola.
«È vero provammo a bastonare il cane che affogava. Ma del resto a guardarla oggi quella vicenda mi fa pensare che non ci furono polemiche, ci furono solo mazzate. Una polemica non poteva esserci: troppo disprezzo da parte nostra, troppo disprezzo da parte loro. D’altro canto, dubito che fossimo e fossero liberi: interpretavamo dei ruoli assegnati dalla storia del momento. Saranno i libri che ci sopravviveranno a decidere della controversia».
Un’altra bestia nera fu per voi Pasolini. Come giudica il suo operato letterario e la sua vicenda esistenziale?
«Provai autentico dolore per la sua morte orribile e sdegno per i misteri insoluti di quel delitto. Al di là delle sue pulsioni e ossessioni Pasolini aveva un candore raro.
Detto questo molta sua poesia e narrativa non mi ha mai convinto. La sua cosa migliore restano i versi in dialetto friulano».
Agli occhi di Guglielmi e dello stesso Sanguineti, Petrolio, l’ultima opera letteraria di Pasolini, resta un esperimento notevole.
«Morto lui ho perso ogni interesse per il suo lavoro».
Mi sembra un pregiudizio.
«Non lo escluderei, ma quello che voglio dire è che gli autori che cita appartengono a una stagione di guerricciole mediatiche, alimentate da protagonisti che si sono combattuti e insultati. Ma fu modesta epica letteraria. I giganti sono altri».
Chi?
«Per esempio Leopardi, su cui sto uscendo con un libro.
Lui mi ha obbligato ad affrontare questioni che mai avrei immaginato di dovermi porre. Nello scoccare dei miei 91 anni Leopardi mi ha dato qualche motivo ulteriore di vita».
Lei dove è nato?
«A Nogara, non distante da Verona, il 19 ottobre 1930. Fino a dieci anni sono vissuto a Verona. Poi a Taranto, a Chieti, a Vicenza, seguendo mio padre funzionario di Stato.
Nonostante la guerra ho avuto un’infanzia serena e un buon rapporto con i genitori».
Suo padre di cosa si occupava?
«Era professore di italiano e storia. Scoppiata la guerra partì volontario, lasciando la moglie e quattro figli piccoli. Fu una scelta ingenua di un uomo che aveva creduto alle promesse di Mussolini. La nomina a provveditore agli studi lo salvò dal fronte e probabilmente da una fine terribile. Quando i partigiani jugoslavi catturavano un ufficiale fascista gli piantavano un chiodo nella testa».
Non capisco come giudica le sue scelte.
«Gli ho voluto bene, ma era troppo intelligente perché, diventato adulto, io potessi pensare che era solo un ingenuo».
Intende dire che ci fu un calcolo opportunistico?
«Credo che le intenzioni di un uomo non siano mai riconducibili a una sola convinzione. Avemmo una durissima discussione e a distanza di anni provo ancora un certo rimorso per non essergli stato, io figlio maggiore, un po’ più vicino quando dovette affrontare psicologicamente e intellettualmente giorni molto difficili. La sua adesione al fascismo, che gli rimproverai, arrivò molto prima del suo formarsi culturalmente e questo aiuta a capire una scelta altrimenti ingiustificabile. Ha dedicato con onore la seconda parte della sua vita alla storiografia letteraria e alla Scuola».
So che ha fatto l’università a Bologna.
«Negli anni dal 1951 al 1954. Oltre a Luciano Anceschi l’altro maestro fu Ezio Raimondi. Divennero amici, come lo sarebbero stati il linguista Luigi Rosiello e il filosofo Enzo Melandri. Mi laureai con una tesi su Corrado Govoni. Mi invitò a casa sua a Roma. Era un uomo semplice, il primo poeta antidannunziano, veramente significativo, che abbia avuto l’Italia. Dal nostro incontro percepii un uomo segnato dal lutto per la morte del figlio, ucciso dai nazisti alle Fosse Ardeatine. Ho conservato alcune sue lettere. Non so se avrebbe senso pubblicarle».
«Ho l’impressione che la letteratura italiana sia precipitata in una condizione di miseria della quale sembra non ci si renda conto».
Lei scrisse qualche tempo fa un manifesto per la “sinistra letteraria”. Non le sembra velleitario o, meglio, inutile?
«Dimentichi quell’articolo che fu l’estremo tentativo di verificare se a sinistra vi fosse ancora vita. Beh, non c’è. Sia chiaro, come non esiste una letteratura “di sinistra”, così non esiste una politica “di sinistra”. Che è come dire che a sinistra fioriscono solo le “correnti”, cioè le piccole ambizioni personali e i litigi. Per come avevo impostato quell’articolo, la “sinistra letteraria” sarebbe dovuta essere l’erede dei Novissimi e del Gruppo ’63. Non c’è nessun erede, solo miseria e qualche premio letterario».
Si sente un po’ inacidito con la vecchiaia?
«Amareggiato di sicuro».
Come vive questa età, che posto occupa nei suoi pensieri?
«Non si può che detestare la vecchiaia e tutti i De senectute che l’hanno accompagnata. C’è la morte in fondo alla vecchiaia e più si avvicina, più mi abituo all’idea di lei. Sento che il tempo mi incalza e non mi dà tregua. Come in fondo è giusto. Mi consolano i ricordi che splendono ancora intatti. Per un vecchio sono i ricordi la vita che gli resta da vivere».