Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  novembre 21 Domenica calendario

In vendita la casa romana di Pasolini

Ci sono molti buoni motivi perché Roma non dimentichi quanto Pasolini, il più intimamente romano dei non romani, le ha dato, e valorizzi i luoghi che lo hanno fatto diventare Pasolini. Il giovane insegnante friulano arriva a Roma nel 1950 con la madre, affamato di vita come un lupo che corre da solo. Passa dal ghetto ebraico, suo primo, momentaneo ricovero, al ghetto delle borgate, dalle parti di Rebibbia. Scopre un mondo a suo modo innocente o inconsapevole, scopre una lingua. Spreme una poesia mai vista prima dalla Roma degradata di Pietralata, del Mandrione, del Pigneto, delle baracche e degli sterrati, delle case tirate su in una notte, quella che nessuno voleva e vedeva. Diventa lo scrittore che per primo e meglio ha dato cittadinanza letteraria e cinematografica a quelli che si chiamavano i sottoproletari, ai ragazzi di vita che vi bruciavano le loro esistenze di precari ante litteram, che ha avuto antenne di speciale sensibilità per le mutazioni piccole e grandi che cambiavano l’anima profonda del Paese: «Stupenda e misera città / che m’hai insegnato ciò che allegri / e feroci / gli uomini imparano bambini».
Esiste qualcosa di impalpabile ma sostanziale che lega un’opera al luogo in cui è stata creata? A parlarci di un autore spesso possono essere, assai più delle autobiografie, in cui si finisce con l’offrire un’immagine creata ad arte, le case, i luoghi in cui ha abitato. Che cosa ci possono dire, che cosa vi possiamo ritrovare? Il genius loci esiste, è importante, fa parte di quel culto della memoria che non è feticismo o nevrosi collezionistica, ma rivisitazione, rilettura, perché ogni generazione è chiamata a fare i conti con i suoi classici, senza sudditanza e senza supponenza. Tanto più nel caso di Pasolini, profeta mite, disarmato e irriducibile.
Certo, non è che tutte le case d’autore debbano avere la magniloquenza del Vittoriale in cui Gabriele d’Annunzio ha profuso gli effetti speciali del suo io ipertrofico e del suo gusto scenografico, così insistito nell’accumulo dei dettagli da risultare lugubre. Quanto lontane le tre povere stanze in cui in corso Casale, a Torino, Emilio Salgari, forzato della penna, produceva quattro romanzi e decine di racconti l’anno su un tavolinetto con le gambe smontabili, facendosi l’inchiostro da solo con le bacche di sambuco. Tuttavia si può capire molto della sua vicenda proprio per negativo.
Se la casa è «uno stato d’animo», come diceva Bachelard, tocca a noi farlo risuonare, con le dovute cautele, e scontando le inevitabili delusioni, le rigidità e gli ingiallimenti delle conservazioni. Nel ‘900 sono frequenti i casi di appassionati estimatori e mecenati che hanno salvato le memorie storiche dall’abbandono e dall’oblio. Così la casa londinese di Dickens, dodici stanze con le poltrone imbottite, i mobili in legno di rosa e i portasigari, il pulpito portatile che usava per le apprezzatissime letture pubbliche. Accanto agli alloggetti minimalisti, come la casa del custode di una gran villa in cui viveva Rousseau, ci sono le residenze dei megalomani: il castello rinascimentale con padiglione neogotico, parco all’inglese e cascate di Dumas; la Hauteville House che Victor Hugo costruì a Guernsey, affacciata sul mare, gremita di specchi; la villa di Georges Simenon a Losanna, 25 stanze, 21 telefoni, una piscina e un’infermeria.
In Francia il ministero della Cultura, sempre all’avanguardia nella tutela dei beni culturali, ha creato un marchio per valorizzare questi luoghi speciali. Da noi, l’Associazione «Case della Memoria» raggruppa un’ottantina di case-museo di artisti, scienziati, musicisti e letterati. Gli scrittori non sono molti, ma le pur rare presenze sono incisive. L’aroma dei Sillabari di Goffredo Parise aleggia sull’amatissima, rustica dimora di Salgareda, a Ponte di Piave, dove visse i suoi due ultimi anni in comunione con la natura e il fiume vicino. Vi sono rimasti mobilio, oggetti, libri, quadri di pittori amici. Per suo desiderio, è diventata un centro culturale.
Ad Aliano, in Lucania, hanno scelto una soluzione intelligente per ricordare il soggiorno di Carlo Levi confinato. Nessun tentativo di ricostruire l’ambiente, ma un vuoto totale imbiancato a calce, su cui corrono immagini degli anni 30 proiettate da un sistema multimediale. E sempre di Levi, sulla collina di Alassio, Antonio Ricci sta restaurando con scrupolo filologico la villa in cui molto dipinse, per farne un centro di cultura. I buoni esempi esistono, ed è forse ora che il ministero della Cultura provveda a mettere in rete, promuovere e sviluppare le singole iniziative.