Robinson, 21 novembre 2021
Rileggere Antonio Delfini
«Se avessi avuto altri amici, o non li avessi avuti affatto, sarei diventato un grande narratore, prima della caduta del fascismo, e dopo lo sarei rimasto. Ma è più probabile che se non avessi avuto gli amici che ho avuto, io non avrei mai scritto un racconto o un quasi racconto». Così comincia “Il Ricordo del Ricordo”, prefazione e insieme racconto di un’opera, Il ricordo della Basca, che nel 1956 Nistri Lischi ripubblica raccogliendo racconti usciti in origine nel 1938. Il “Ricordo del Ricordo” di Antonio Delfini è uno dei testi più straordinari della letteratura italiana del Novecento: storia d’un aspirante scrittore, della sua anima e dell’epoca in cui è vissuto, quella che si srotola tra l’avvento del Fascismo e la nascita dell’Italia postbellica. Delfini, figlio di proprietari terrieri di Modena, nato nel 1907, autodidatta, è uno degli scrittori più inafferrabili che esistano. Giovanissimo aderisce al Fascismo, ma se ne distacca ben presto e manifesta un proprio antifascismo umorale senza tuttavia aderire ad alcun credo politico. Come scrive nella sua breve Autobiografia, alla caduta del regime, nel settembre del 1943, a Viareggio ruba alcuni mitragliatori in una caserma e li porta a un gruppo di comunisti, poi combina diplomaticamente l’unione dei comunisti e dei monarchici, quindi «s’iscrive a qualsiasi formazione clandestina, dovunque e comunque, ma nessuno lo manda mai a chiamare». Autore di un paradossale e preveggente Manifesto per un partito conservatore e comunista ( 1951), Delfini è uno scrittore unico e irripetibile nella nostra letteratura. Incarna in tutto e per tutto il Novecento nelle sue contraddizioni letterarie e culturali, e dà forma anzitempo all’Homo puer, figura ancora oggi dominante, e non solo nelle belle lettere. Somiglia a Kafka, lo scrittore lunare degli inizi, scrive Cesare Garboli, suo magnifico interprete, mentre per la disseminazione di scritti, prose e poesie ricorda un altro irregolare del XX secolo: Robert Walser. Per quanto sia uno scrittore inclassificabile e inafferrabile, Delfini è soprattutto uno scrittore straordinario di racconti che somigliano a passeggiate all’aria aperta condotte in giornate terse solcate solo da solitarie nuvole. Oltre dieci anni fa Gianni Celati, che di Delfini è stato un devoto lettore, ha raccolto in un’antologia presentata da lui, e curata da Irene Babboni, una scelta di questi racconti: Autore ignoto presenta ( Einaudi). Per conoscere lo scrittore modenese si può cominciare da qui, dalle pagine che comprendono Ritorno in città (1933) e Il ricordo della Basca, tra le sue migliori. Ingenuo, imprevedibile, bizzoso e generoso Delfini è stato per decenni una leggenda nel mondo letterario fiorentino e romano tra le due guerre, un mondo che non l’ha compreso né apprezzato stimandolo alla stregua di uno strambo che viveva di rendita mentre finanziava i giornali e le avventure di carta degli amici tra cui ci sono Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti, Ugo Guanda. Vasco Pratolini in un articolo del 1939 scrive che Delfini non può essere rinchiuso in una definizione: «anzi, nella disinvoltura con cui sfugge al “genere” si deve rintracciare la sua dote specifica». In un incontro pubblico nel 1963, anno della sua morte, a Modena Pasolini lo definisce scrittore “aggraziato”, specificando che Delfini non osava considerare la grazia come un diritto «ma solo uno sgomentante ideale». Il poeta e regista definisce la vita di Delfini una delle più assurde che si siano verificate nel nostro scorcio di secolo. In cosa è consistita questa vita? Nell’inseguimento continuo della letteratura stessa, a partire dai Diari iniziati nel 1927 che sono uno dei testi più affascinanti della sua iniziazione letteraria, avvenuta nelle stanze della grande casa di Modena abbandonata nel 1935 a causa del fallimento economico della famiglia. Antonio vivrà ramingo tra Firenze e Modena, in un andare e venire senza posa tra varie città italiane, tra cui Roma e Viareggio. Dopo aver esordito con il Fanalino della Battimonda, esempio eccentrico di “scrittura automatica”, questo scrittore non- scrittore ha dato alle stampe un anno prima della sua morte presso Scheiwiller Modena 1831 città della Chartrouse, in cui mostra che la città di Stendhal non è Parma bensì Modena, città da lui amata e da cui ha ricevuto, come scrive nel “Ricordo di un Ricordo”, il dono del magon, malattia inguaribile: «Non ero maturato per niente durante gli anni. La mia virilità non esisteva: ero soltanto un povero adolescente che ha paura di crescere». Desiderando essere scrittore, ed essendolo in ogni parola e frase che ha scritto, Delfini si è esiliato da quella condizione, che costituiva e costituisce ancora oggi per tanti uno status da esibire socialmente. La leggerezza è la qualità migliore della sua scrittura. Le parole dei suoi racconti sembrano depositarsi sulla pagina come per magia, dopo essere state toccate da una sconosciuta divinità dell’aria. Tornare a leggerlo oggi, ripartendo dai Diari, tra poco di nuovo in circolazione in una nuova e più ampia edizione di Einaudi, o dal libro I racconti appena ristampato da Garzanti con una ampia prefazione di Roberto Barbolini, è un evento raro e unico da non perdere.