Robinson, 21 novembre 2021
Bataclan, il processo raccontato da Carrère
1. Un dibattito
Grande fermento mercoledì scorso: arrivava François Hollande. Tutti i giornalisti- turisti venuti il primo giorno e ripartiti il secondo erano di ritorno, costringendoci a stringerci di più sulle panche che sono diventate la nostra dimora abituale. Per riscaldare l’uditorio in attesa della star, c’è stato un piccolo dibattito strano ( strano perché assolutamente ozioso, ma al tempo stesso eccezionalmente composto) che verteva sul sapere se la testimonianza dell’ex presidente avesse o meno titolo a figurare nel processo. Quale luce poteva apportare sui fatti, la personalità degli imputati o la loro moralità ( triplice criterio richiesto, l’ho scoperto in questa occasione, dall’articolo 331 del Codice di procedura penale)? Considerando che era stata rifiutata la qualifica di parte civile a persone che erano all’interno dello Stade de France, dove non era successo nulla, perché riservare un trattamento speciale a Hollande, che era anche lui all’interno dello stadio e su cui nessuno, a quanto si sa, ha sparato? Perché questo favoritismo? Perché era il presidente della Repubblica? Risposta ovvia: sì, perché era il presidente della Repubblica. E perché era con lui in particolare che ce l’avevano i terroristi. Li abbiamo sentiti, nella terribile registrazione audio del Bataclan, dire: «Potete ringraziare il vostro presidente François Hollande». Se vi ammazziamo è colpa sua, perché è lui che ha cominciato tirando bombe sulle nostre donne e i nostri bambini. Nonostante il tentativo velleitario di qualche avvocato della difesa, che aveva sollevato questo problema inesistente, la saggezza imponeva di concludere, come ha fatto il pubblico ministero: giudicheremo l’opportunità di ascoltare questa testimonianza una volta che l’avremo ascoltata; e poi ormai Hollande era là, non si poteva mica chiedergli di tornarsene a casa.
2. Un sassolino nella scarpa
Mentre continuavamo ad aspettarlo, scommettevamo tra di noi sulle probabilità di un incidente in aula. Salah Abdeslam sarebbe saltato su, come faceva all’inizio del processo e come ha smesso del tutto di fare? Un amico avvocato aveva immaginato questa scena: nel momento in cui Hollande si avvicina al banco dei testimoni, prima ancora che apra bocca, Abdeslam si alza in piedi e gli punta il dito contro gridando: «È lui, l’imputato! È lui che dovrebbe essere qui dentro nella gabbia!». Dobbiamo confessarlo: per quanto apprezziamo la serenità dei dibattimenti, speravamo in qualcosa del genere. Non è successo nulla. Sì, c’è stata un’agitazione confusa e in ogni caso troppo tardiva di Abdeslam, a cui il presidente del tribunale ha immediatamente troncato la parola, perché fra presidenti ci si dà una mano a vicenda. Hollande è stato solenne, articolato, un po’ compassato ma con l’umorismo sempre in agguato: Hollande. Gli avvocati delle parti civili gli hanno posto delle domande rispettose e per la maggior parte inutili, a cui lui ha risposto in sostanza che se dovesse rifarlo da capo, rifarebbe tutto allo stesso modo. L’unica a tentare qualcosa è stata Olivia Ronen, l’avvocata di Abdeslam. Riassumo la sua argomentazione. Il discorso dei terroristi è che gli attentati sono una risposta legittima al terrorismo di Stato praticato dalla Francia in Iraq e poi in Siria: occhio per occhio, dente per dente, non bisognava cominciare. Il discorso dello Stato è non solo che una risposta del genere sarebbe in ogni caso inammissibile, ma che per di più l’argomento non sta in piedi, perché lo Stato islamico ha minacciato la Francia prima e non dopo i primi raid in Iraq. Secondo la formula di Hollande, ci hanno colpiti per quello che siamo – il Paese della libertà – non per quello che abbiamo fatto. Tutti sembrano d’accordo su questo punto, ma è questo che contesta Olivia Ronen. «Aspetti, signor presidente», dice, «guardiamo attentamente la cronologia. È il 21 settembre 2019 quando Abu Mohammed al- Adnani, portavoce dello Stato islamico, lancia solennemente un appello a punire il campo occidentale e in particolare i «malvagi e schifosi francesi». E quando hanno luogo i primi raid francesi in Iraq?». «Ah…», risponde Hollande che annusa il tranello, «a fine settembre» ( quindi dopo). «No», risponde l’avvocata, «il 19 settembre» ( quindi prima). La Francia colpisce l’Isis, due giorni dopo l’Isis annuncia che colpirà la Francia. Attenendosi strettamente alla cronologia, Abdeslam dunque ha ragione: siamo noi, la Francia, che abbiamo dichiarato guerra ai pacifici cittadini dello Stato islamico. È un dettaglio, si passa rapidamente ad altro, ma ho pensato che si stava battendo valorosamente l’avvocata di Abdeslam, con le poche cartucce che aveva a disposizione, e mi sono chiesto se questo dettaglio, questo sassolino nella scarpa di Hollande, non fosse anche un sassolino sulla via di una difesa di rottura, come fu teorizzata e applicata in grande stile da Jacques Vergès in occasione del processo Barbie, esattamente trentacinque anni fa. Il processo degli attentati del 13 novembre fa pensare spesso al processo Barbie. A Lione, come oggi a Parigi, la messa in scena era grandiosa. L’atrio venne trasformato in un tribunale capace di accogliere settecento persone, l’aula era stata sopraelevata, tutto era stato filmato. Si era voluto fare di quel processo il processo al nazismo, all’Occupazione, alla tortura, un processo esemplare di fronte alla Storia. Tranne che. Tranne che c’era Vergès, che usò tutto il suo talento per declinare in ogni modo possibile un’argomentazione simile a quella che Abdeslam recita a pappagallo: la vostra giustizia non vale nulla. Non riconosco la vostra giustizia perché la Gestapo ha torturato in Francia, d’accordo, ma la Francia ha torturato in Algeria e nessuno pensa a processarla. E dunque parlerò, al processo di Barbie, solo della tortura in Algeria. E non venite a dirmi che non c’entra nulla, non è vero. Ognuno faccia pulizia prima a casa propria.
3. L’avvocato del terrore
È il titolo dello straordinario documentario che Barbet Schroeder consacrò a Jacques Vergès, personaggio romanzesco che cominciò come coraggioso combattente anticolonialista prima di diventare, attraverso la causa palestinese, il difensore di tutti i terroristi degli anni 70, di qualche dittatore sanguinario ( ma marxista) e, a coronamento della sua carriera, di un carnefice nazista. Annidato nella penombra dorata del suo studio, davanti alle sue statuette khmer ( offerte, chissà, da Pol Pot), ha un sorriso da gatto del Cheshire, una voce mielata e sardonica: il perfetto cattivo da film di James Bond. Barbet Schroeder gli chiede che ricordo conserva del processo Barbie. Lui si rallegra della domanda e si rigira l’aggettivo in bocca prima di lasciarlo uscire: «Euforizzante!». Poi tira una boccata dal suo sigaro, incantato di se stesso, prima di riprendere: «C’erano 39 avvocati di parte civile, e io solo per la difesa. Il che significa che ognuno di loro valeva solo un quarantesimo di me. Mi ricordo che prima del processo Roland Dumas mi disse che sarebbe stato designato da un’associazione di partigiani. ‘ Che ne pensi?’. Gli risposi: ‘ Non ho paura di te, ma te lo sconsiglio. Sarete in quaranta a ripetere la stessa cosa e fingere la stessa emozione che non provate: la dignità umana… il dovere della memoria… perché non succeda mai più… I primi tre, se sono bravi attori, un po’ di successo lo avranno, ma a partire dal quarto diranno tutti: basta! Basta!’. Dumas accettò comunque l’incarico, ma le faccio questa domanda: saprebbe dirmi un solo nome di uno dei tenori che avevo dall’altra parte? Un processo è un luogo magico, una scatola a sorpresa. ‘ Perché non succeda mai più’ l’abbiamo sentito belare cento volte, ma in realtà quello che la gente si diceva era: ‘Che cos’altro si inventerà oggi quel mascalzone di Vergès?’... È una cosa che mi diverte, che mi elettrizza, ma non è soltanto questo. Non posso sopportare che un uomo venga umiliato. Non posso sopportare che un uomo solo, foss’anche l’ultima delle carogne, venga insultato da una folla di linciatori. Un giorno qualcuno mi ha domandato: ‘ Avrebbe difeso Hitler?’». Di nuovo il sorriso da gatto del Cheshire. «Ho risposto: ‘Difenderei perfino Bush’».
(Traduzione di Fabio Galimberti)