Robinson, 21 novembre 2021
Intervista a Zerocalcare
Una scritta sul muro recita: «È inutile che vivi fuori se muori dentro» mentre un autobus arriva al capolinea: è Rebibbia. Ultima frontiera. Inizia così Strappare lungo i bordi, la serie tv scritta e diretta da Zerocalcare che ha debuttato su Netflix mercoledì 17 alle ore 9 del mattino: sei puntate di 15/20 minuti di cui tutti oggi parlano. E di questo parla anche Il castello di cartone, la lunga (oltre 90 pagine) storia inedita, del volume antologico
Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia,
che uscirà in libreria giovedì 25 novembre di cui potete leggere in anteprima una parte in queste pagine. Serie tv e fumetto si legano in maniera inestricabile, perché le tavole sono un complemento fondamentale alle animazioni.
Ne spiegano la lunga e tormentata gestazione, raccontano il lavoro febbrile per realizzarle, evidenziano la consapevolezza che riguarda i contenuti: «Al minuto uno si parla di Genova e non è un caso: ho deciso che doveva essere come una dichiarazione di qual è la visione del mondo della serie. E non avevo intenzione di retrocedere di un millimetro». Nessuna incertezza su questo. Le paure del suo autore, Michele Rech, 37 anni, in arte Zerocalcare, sono altre.
È stato un lancio nel vuoto per te?
«Eh sì, io l’ho vissuto proprio così».
Davvero hai paura di fallire?
«Insomma. A un certo punto ero proprio convinto che sarebbe stata la debacle più totale».
Ma tu sei sempre convinto di questo. Facciamo così: il giorno del lancio su Netflix mi mandi un messaggio per dirmi come è andata. Anzi, cosa farai in quell’occasione: visione collettiva con gli amici?
«Sei pazzo? Scomparirò e leggerò tutti i messaggi sui social fino alle quattro del mattino rosicando su tutti i commenti negativi. Comunque è stato un salto nel buio perché io qui non avevo parametri, non avendo mai fatto prima una serie. E poi perché mi sa che nessuno in Italia ha mai fatto una cosa così assurda, con tutte le voci tranne l’armadillo fatte da una persona sola che parla tutta ciancicata, in romanesco: è proprio una scommessa totale. Anche perché un conto sono i miei lettori che ormai mi conoscono così come io conosco loro, ma con Netflix arrivi a tutti».
Perché l’hai fatto?
«Perché dopo aver scritto duemila pagine in sette anni non ce la facevo più: dovevo fare qualcosa di diverso».
Dover lavorare con una struttura ti ha anche fatto scoprire che l’orario di lavoro sindacale non coincide con il tuo: esistono persino il sabato e la domenica in cui non si lavora!
«Io morirei per difendere questo diritto: è la cosa più giusta del mondo ma per me, applicarla al mio modo, è stata una sofferenza indicibile ( ride)».
Infatti, sempre nel graphic novel, dici che in quelle pause forzate ti trovavi a “fissare il vuoto siderale della mia esistenza”».
«È così ma dopo aver scelto l’accollo della serie, ci stava tutto quanto».
Beh ma, a parte il lavoro, anche per te ci sarà tutto il resto: gli amici, gli svaghi, gli affetti…
«Io non ho una “parte dedicata al lavoro”, il lavoro si è divorato tutti i miei spazi. Io non ho tempo di staccare mai, non ho giorni off e, se succede, appunto c’è il vuoto ( ride)».
Però c’è stata una progressiva crescita delle cose che hai fatto.
«Sì ma è tutto relativo al disegno e dintorni. Il resto è immobile».
Eppure questo volume è forse la cosa più politica e impegnata mai fatta da te “Kobane Calling” a parte.
«Perché paradossalmente se si riduce il tempo per fare le cose le uniche storie che riesco a portare a termine sono quelle che vengono imposte dal mio senso di colpa e quindi quelle politicamente più impegnate che servono a una causa».
Parliamo allora delle storie di questa raccolta: c’è “Etichette” per esempio che parla della situazione in Kurdistan. Che cosa è cambiato da quando l’hai fatta?
«La situazione è precipitata: si sono moltiplicati gli attacchi e la Turchia ha ammassato tutte le sue truppe di jihadisti alle porte di Kobane oltre a tutta una serie di bombardamenti con i droni fatti sulle montagne e anche nel Rojava con molte vittime.
Poi sembrava che l’invasione fosse questione di giorni ormai e invece gli attacchi si sono fermati».
Per quale motivo secondo te?
«Perché la responsabilità di far tornare i jihadisti a Kobane in questo momento probabilmente non andava bene a Russia e Stati Uniti.
Soprattutto dopo quello che è successo in Afghanistan. Quando i riflettori saranno spenti è probabile che scatterà l’attacco».
Le persone che hai incontrato durante il tuo viaggio stanno bene?
«Alcune in realtà sono morte nei bombardamenti che ci sono stati in questi ultimi mesi. Tutti quelli che possono si preparano alla difesa».
Un’altra storia del volume si intitola “La dittatura immaginaria” e riguarda la cosiddetta “cancel culture”. Credo sia la cosa più complessa che tu abbia mai realizzato: ci hai lavorato molto?
«Sì, proprio perché non volevo che ci fossero zone d’ombra, anche perché ci sono anche molti lettori miei su cui un discorso del tipo “non si può più dire niente” fa presa: lettori, disegnatori, autori, giornali con cui collaboro. Ci tenevo quindi che fosse abbastanza rigorosa e che non ci fossero margini di ambiguità».
Nella serie a un certo punto il tuo personaggio dice “Attaccati al c...o!” e l’Armadillo/Mastandrea lo riprende.
«Secondo me aveva senso fare quella battuta sia perché mi faceva ridere sia perché io non penso che ci siano delle cose innominabili. Il valore di alcune proposte sta, non tanto nel doverle per forza assumere, ma nel discutere e problematizzarle. Per esempio, per me la famosa “schwa” non è una soluzione ottimale per tanti motivi: perché ci sono difficoltà di pronuncia, perché quando scrivi a mano non si riesce a capire bene che cos’è e così via. Però penso che il suo valore sia quello di imporre una riflessione intorno alla lingua».
Però anche tu usi dei termini non politicamente corretti come quando nel fumetto uno sceneggiatore dice “e va bene, vuoi il frocio? E io te ce metto er frocio. Tiè, “lo studente” mo’ è diventato “er frocio”!».
«L’ho fatto proprio perché è vero che a volte l’inclusività rischia lo stereotipo ma questo avviene se la si attua non perché ci si crede, come nel caso dello sceneggiatore di cui sopra, ma perché devi solo spuntare delle caselle. Io comunque penso che la questione base sia riuscire a capire come non assecondare la barbarie e non risultare al tempo stesso estranei al mondo reale. Bisogna stare dentro alle cose riuscendo a mantenere un’identità e poi, se possibile, cercare di orientarle per migliorarle».
Sia nel graphic novel che nella serie c’è un momento molto divertente sui bagni degli uomini e delle donne: non incorri nel temibile “mansplaining” ovvero uomo che spiega alle donne cose di cui sono più esperte di lui?
«Ma io per farlo l’ho chiesto a una donna ( ride)! Però è vero, lì vengono proprio fuori i miei pregiudizi: all’inizio ci sono io maschio convinto di sapere come sono fatti i bagni delle femmine (puliti) mentre quelli dei maschi fanno schifo e poi c’è l’amica che sfata i miei pregiudizi spiegandomi un po’ di cose che mi lasciano di sasso».
E invece di censurarti come temevi, è stata Netflix a chiederti di aggiungere questa parte, giusto?
«Sì, rivelandomi un segreto: che metà del genere umano sono donne. Io avevo messo solo la parte sui disgustosi bagni degli uomini».
Quindi non ci sono state le temute censure della multinazionale per cui avresti “venduto l’anima”?
«No, anzi. Quelli che credevo sarebbero stati i miei mostri, lavoro collettivo a cui non ero abituato e la “purezza politica” a rischio, alla fine sono proprio ciò che mi ha permesso di fare quello che ho fatto».
Ore 1,10 del mattino, messaggio per Zerocalcare: «Allora debacle totale?». Ore 3.34: «No. BENINO». Maiuscolo.