Tuttolibri, 21 novembre 2021
Intervista a Telmo Pievani
Cercare qualcosa e trovare tutt’altro. Succede a chiunque. E molto spesso succede agli scienziati e alle scienziate. La scoperta dell’inatteso. Nulla di miracoloso. Caso mai di imprevisto. Quel risultato, di solito dirompente, «che giunge quando strada facendo non trovi quello che stavi cercando ma qualcos’altro». Un fenomeno affascinante, un processo della nostra conoscenza, che si chiama serendipità: «da Serendippo, il nome persiano antico dello Sri Lanka, da cui, secondo un’antica novella orientale, tre principi partirono all’esplorazione del mondo». Proprio da questo viaggio di iniziazione inizia il nuovo libro di Telmo Pievani dedicato all’inatteso nella scienza: Serendipità.
Evoluzionista e filosofo della scienza dell’Università di Padova, Pievani ci guida in un viaggio avanti e indietro nel tempo e, da Archimede impegnato a dover smascherare le frodi di orafi imbroglioni ai peregrinaggi di significati della «favola» dei tre principi di Serendippo, ci racconta come sia nata la parola serendipity e come sia diventata di moda, e poi ci fa conoscere il peso che via via è stato attribuito alle circostanze fortuite nella storia della scienza. Ma soprattutto chiarisce che «la serendipità non è “l’eureka” del genio e non è puro caso. Richiede di essere pronti e ricettivi nei confronti di un risultato sorprendente. Bisogna capire subito di avere per le mani una scoperta inaspettata e non soltanto un esperimento mal riuscito».
Nata nel Settecento dell’eccentrico scrittore Horace Walpole che interpreta a modo suo la novella orientale, la parola serendipity compare nel 1913 nell’Oxford English Dictionary: di fatto quale modello astratto di non intenzionalità?
«Esatto, proprio in questa accezione, che è la più precisa e fedele al fraintendimento di Walpole che quando parla di serendipità si riferisce al cercare qualcosa e trovare tutt’altro per caso e per sagacia. In termini di non intenzionalità ne parla anche Merton, il grande sociologo della scienza che ha realizzato lo studio più importante sulla serendipità. Esempio a sua volta di storia serendipitosa, perché Merton si imbatte per caso nella voce serendipity cercando sul dizionario un’altra parola: ne legge la definizione, si incuriosisce e inizia un percorso di ricerca che lo condurrà a dedicarle un bellissimo libro in cui ricostruisce meticolosamente la storia del concetto e ne identifica il nocciolo nella ricerca di qualcosa da cui scaturisce tutt’altro, quindi nella scoperta di risultati inattesi».
Via via il ruolo del caso nella scoperta è diventato di moda. Lei però, citando Pasteur, sottolinea che nella scienza il caso favorisce solo le menti preparate. Perché?
«La tesi centrale di Pasteur è che se non hai predizioni e aspettative in mente, non potrai mai notare che un’osservazione accidentale è incongruente, e quindi potenzialmente foriera di serendipità. In pratica Pasteur, che non conosceva Walpole, formula lo stesso concetto quando, nel famoso discorso inaugurale del 1854 alla facoltà di Scienze di Lille – discorso con cui doveva convincere giovani rampolli di industriali a impegnarsi per la ricerca scientifica – dice che il caso è importante ma favorisce solo le menti che hanno una teoria attraverso la quale fanno delle domande alla natura. E questo è un tema importante in filosofia della scienza: non esistono mai osservazioni pure che ti cadono addosso casualmente, perché sei sempre tu che fai una domanda alla natura. Natura che, rispondendo, a volte conferma le tue idee, a volte confuta la tua teoria, e molte volte ti fa scoprire qualcosa di imprevisto, e, guarda caso, molto importante. Del resto, se stai cercando qualcosa e scopri qualcosa di inaspettato sono molto alte le probabilità che sia davvero qualcosa di rivoluzionario. Ecco perché le scoperte serendipiche sono quelle che hanno cambiato il paesaggio della scienza: sono salti nell’ignoto».
E in effetti nel libro ci fa riflettere su come la scienza sia una sfida serendipitosa all’incertezza e all’ignoranza. Ma perché alcune discipline sono, più di altre, ricche di serendipità e particolarmente esposte a scoperte casuali?
«Le discipline più serendipiche sono quelle in cui sappiamo meno e quindi è più probabile che cercando qualcosa si finisca per intercettare qualcosa di totalmente inaspettato. In sostanza, noi vediamo solo quello che cerchiamo guardando dentro il cono di luce della nostra lampada, ma se un oceano di ignoto si distende nel buio tutto intorno, muovendo la lampada finiamo per scoprire quasi inevitabilmente un mare di cose inaspettate. Questo vale per la medicina, ma anche per l’astronomia. Conosciamo talmente poco quello che c’è nel cosmo, che quando introduciamo nuovi strumenti – come per esempio la radioastronomia, le onde gravitazionali… – ampliano l’orizzonte del conoscibile e si spalancano davanti ai nostri occhi fenomeni che nemmeno sapevamo di non sapere e questo è serendipità. Come la scoperta delle pulsar da parte di Jocelyn Bell».
Perché invece la mela di Newton non aveva il sapore della serendipità?
«Perché Newton non scopre accidentalmente grazie a una mela la gravitazione universale. Ammesso che sia accaduto veramente, la caduta della mela caso mai è stato un momento rivelatore: osservandola ha associato la sua caduta alla Luna che orbita intorno alla Terra e cade all’infinito ruotandoci attorno senza precipitare. Quindi ha collegato un’osservazione puntuale a una serie di riflessioni che stava già facendo sulla gravitazione e la meccanica celeste».
Ma si può favorire la serendipità ?
«L’European Research Council ha finanziato un progetto che prova a rispondere a questa domanda. Di fatto la serendipità è imprevedibile, ma si può coltivare. Per esempio non ignorando anomalie, provette rotte, indizi che magari la natura ti sta dando. Molte volte un errore è solo un errore ma qualche volta l’errore diventa generativo, cioè ti fa scoprire qualcosa di nuovo. Senza questa capacità non avremmo la dinamite, la celluloide, la seta artificiale, la vetroceramica e molto altro. E senza sostanze dimenticate nei cassetti o altrove, non avremmo il forno a microonde, il dagherrotipo, la penicillina… Altro elemento importante è la valorizzazione della diversità e dell’interdisciplinarità dei gruppi di ricerca, in quanto migliorano la creatività e la produttività scientifica. La scienza è un’impresa collettiva: si vedono le cose attraverso gli occhi degli altri. E se si analizza un problema da prospettive diverse è più probabile che si facciano scoperte inaspettate».
Insomma, come scrive, nel viaggio ai confini dell’ignoto che è la scienza, bisogna essere xenofili: amare lo strano, il diverso, lo straniero, il nuovo, le eccezioni, le deviazioni. Ma perché secondo lei la serendipità è un effetto farfalla della conoscenza?
«Non solo: anche la scoperta dell’effetto farfalla è un esempio di serendipità. Comunque secondo me la scoperta serendipica in sé è un effetto farfalla della conoscenza perché rappresenta una deviazione dalla traiettoria stabilita che conduce a qualcosa di inatteso, ci fa scoprire qualcosa che non stavamo cercando, da tutt’altra parte rispetto a dove stavamo guardando. Scoperta con cui perturbiamo un sistema che conosciamo molto limitatamente e così facendo andiamo a toccare porzioni inesplorate di un grande ignoto che sappiamo di non conoscere o non sappiamo nemmeno di non conoscere. Proprio per questo la scienza è una avventura bellissima e senza fine: è un corpo a corpo con la natura, che sicuramente è molto più grande della nostra immaginazione e della nostra conoscenza, un ignoto gigantesco che attende di essere svelato e che apre grandi opportunità per le scoperte serendipitose. Il fatto paradossale è che ogni volta che scopriamo qualcosa in più è come se scuotessimo quell’ignoto e facessimo emergere nuove domande, uscendone con l’impressione di essere ancora più ignoranti. Da qui il paradosso della scienza: nuove risposte genereranno sempre nuove domande. Ma la vera ignoranza non è l’assenza di conoscenza, ma il rifiuto di acquisirla. Il bello allora è sfidare l’ignoto là fuori usando il metodo sperimentale e la razionalità».—