il Giornale, 21 novembre 2021
Un libro sulla morte di Calabresi
Nemesi politica e paradosso ideologico, la macchina del fango tanto invocata contro la destra, è invece figlia dottrinaria e prediletta della sinistra. Ce lo ricorda un libro che, appoggiandosi a una documentazione imponente, ricostruisce, con lucidità e puntiglio, il caso più esemplare di delegittimazione dell’avversario dell’Italia moderna. Ossia come l’azione coordinata di un preciso gruppo di pressione, una lobby o un clan, attraverso una campagna stampa di precisione scientifica è riuscita a ledere la credibilità di una persona screditandone l’immagine pubblica, fino a trasformarla in un obiettivo da colpire. E infatti: il commissario Luigi Calabresi fu ucciso, colpito da due proiettili, il 17 maggio 1972, nel parcheggio davanti a casa, a Milano, dopo due anni e mezzo di una feroce e spregevole campagna di stampa condotta dalla sinistra il cui esito, inevitabile in quel delirio ideologico, fu appunto la morte del commissario «torturatore e assassino», considerato responsabile senza processo né prove – della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra di un ufficio della Questura di Milano dove si trovava in stato di fermo in seguito alla strage di piazza Fontana, nel dicembre 1969.
Il libro, Fango. L’omicidio Calabresi e la sinistra italiana (Castelvecchi) lo ha scritto Aurelio Grimaldi, autore e regista con una particolare sensibilità verso le trame nascoste della storia d’Italia (nel 2020 ha scritto e diretto Il delitto Mattarella sulle fosche vicende dell’omicidio del presidente della Regione Sicilia). Grimaldi all’epoca dei fatti aveva 12 anni ma ne ha trascorsi molti di più a studiare le carte dell’infinito iter giudiziario che ha portato alla condanna definitiva di Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani quali mandanti, e Leonardo Marino e Ovidio Bompressi come esecutori materiali, dell’omicidio del commissario Calabresi. E le carte sono parecchie, visto che fra processi e richieste di revisione, dal 1990 al pronunciamento della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo che nel 2003 respinse il ricorso degli imputati, si contano ben 17 sentenze (tutte, eccetto una, contrarie ai condannati). Nessuno in Italia ha mai avuto così tanti magistrati oltre cento – impegnati sul proprio caso.
Sul caso Calabresi e sulle responsabilità di Lotta continua nella sua morte, e del suo leader Adriano Sofri in primis, si è detto e scritto tanto. Ma l’originalità del saggio di Grimaldi è, oltre la ricostruzione della cronaca, dei processi e del clima dell’epoca, il suo arrabbiato j’accuse, da sinistra, contro l’ideologia marxista rivoluzionaria e delirante che ha inneggiato e praticato la violenza per anni, senza pentimenti, e contro una micidiale macchina del fango fanaticamente alimentata da una setE il triste campionario di menzogne, minacce, ricostruzioni romanzate, fake news e invocazioni di morte sfornato per anni dalla stampa di sinistra, è agghiacciante. L’Unità, l’Avanti!, il settimanale del Partito comunista Vie nuove (si legga l’ignobile racconto, del tutto falso, sulla tragica notte del 15 dicembre 1969 dentro la Questura di Milano), il manifesto e soprattutto L’Espresso e Lotta continua: eccola la macchina del fango che formò l’opinione pubblica, che costruì il mostro Calabresi il «commissario Finestra», il «dottor Cavalcioni» che ne fece un assassino-torturatore cui farla pagare, che appiccicò sulla sua schiena il bersaglio su cui i militanti di Lotta continua, ispirati dai loro peggiori maestri, spararono i due colpi mortali; militanti che ancora, dopo l’infame assassinio, per anni continuarono a plaudire la vendetta compiuta, a proteggere i colpevoli, a difendere la «giustizia proletaria» contro quella dei tribunali dello Stato.
Grimaldi di fatto compie due operazioni, una più meritoria dell’altra. Da una parte spazza via i molti luoghi comuni, pregiudizi e false informazioni che ancora aleggiano sulla morte di Pinelli e l’uccisione del «superpoliziotto» Calabresi; dall’altro analizza fin nei dettagli più infimi la vergognosa campagna di disinformazione operata dall’intellighenzia e dalla stampa di sinistra a difesa di Sofri&compagni. Nel primo caso l’autore ci ricorda che Calabresi non era nella stanza da cui cadde Pinelli (a distanza di decenni dichiara di non crederci più lo stesso Sofri); che l’anarchico Valpreda non mise la bomba a piazza Fontana, ma su quella giornata mentì su tutto ed era coinvolto in altri attentati dinamitardi, insomma era tutto tranne il santo e martire celebrato dalla sinistra antagonista, Dario Fo in testa; che Pinelli non fu gettato dalla finestra della Questura, ma o cadde per un malore dopo essersi sporto dal bassissimo parapetto, assonnato e spaventato (molto probabile) o si gettò suicidandosi (meno probabile), e comunque non fu mai picchiato né tanto meno torturato come dimostrarono tutte le perizie; che Calabresi con le cosiddette «violenze di Stato» non c’entrava niente, come tutte le indagini hanno comprovato.
Nel secondo caso invece Grimaldi elenca tutte le fake news che inquinarono la vicenda: il falso passato di Calabresi inventato dal nulla (non fu mai negli Usa ad addestrarsi con la Cia, non ebbe alcun rapporto col generale golpista De Lorenzo, non frequentò mai i servizi segreti...); la totale ignoranza in materia dell’intero clan del «Calabresi assassino», i cui adepti non lessero mai un documento e non credettero a fatti e prove, ma solo nel dogma che il commissario doveva essere un assassino; il totale pregiudizio con cui la crema dell’intellighenzia nazionale (quasi 800 nomi eccellenti) firmò l’immondo manifesto pubblicato sull’Espresso nel giugno del ’71 il punto di non ritorno della macchina del fango contro il «torturatore» Luigi Calabresi, di fatto il lasciapassare perfetto per il suo assassinio.
Per il resto, ecco alcuni particolari del caso Calabresi, non essenziali ma significativi, che Aurelio Grimaldi ci ricorda impietosamente. Uno: alcuni passaggi malati di articoli usciti su Lotta continua (scritti anche in prima persona da Adriano Sofri): «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai», «Siamo stati troppo facili con Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, e continuare a perseguitare i compagni», «Calabresi è un assassino. Il proletariato ha già emesso la sua condanna. L’imputato è da tempo designato: torturatore e assassino», «Il proletariato emetterà il suo verdetto e lo renderà esecutivo». Due: uno dei pochissimi cronisti a prendere posizione a favore di Calabresi fu Enzo Tortora i casi della disgraziata giustizia italiana... -, allora corrispondente del Resto del Carlino. Tre: la peggiore di tutti, dal punto di vista etico e giornalistico, fu Camilla Cederna, ancora oggi santificata come grande penna (di costume forse, d’inchiesta per nulla, anzi), primo motore di quell’orrenda macchina del linciaggio che portò alla morte di Calabresi (si raccomanda la lettura del capitolo «Una maestra di giornalismo. Il metodo Cederna», sulle sue fallimentari inchieste, sia sul caso Calabresi sia sulla ancora più vergognosa vicenda che portò alle dimissioni di Giovanni Leone). Quattro: l’esilarante analisi filologica del libro Storia di Lotta Continua di Luigi Bobbio, dirigente del movimento marxista e figlio del celebre Norberto, che dà il senso del «caos ideologico e mentale di ragazzi che si autoimponevano un lavaggio del cervello anche lessicale che obnubilava ogni autonomia logico-concettuale». Cinque: l’annotazione che dei 757 firmatari della squadrista lettera contro Calabresi uscita sull’Espresso, solo due hanno fatto pubblicamente mea culpa: Norberto Bobbio e Paolo Mieli (e tutti gli altri?). Sei: il fatto che oltre agli articoli criminali Lotta continua pubblicava anche divertenti (?) vignette del commissario che insegna al figlioletto Mario a tagliare le teste dei rivoluzionari e a lanciare dalla finestra pupazzi di anarchici per preservare, da adulto, la tradizione torturatrice di famiglia. E ci fermiamo qui.