Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2021
Ritratto di Colombo Jr
Mentre i legionari del politically correct danno la caccia ai monumenti di Cristoforo Colombo, reo di aver “scoperto” l’America e dunque del genocidio degli autoctoni, della schiavitù degli africani, della guerra in Vietnam e quant’altro, si affaccia inopinatamente sulla scena, e proprio a Washington, D.C., un figlio del navigatore genovese, Fernando Colombo. È lui infatti, secondo la persuasiva ipotesi di Lucia Tongiorgi Tomasi in un libro Olschki fresco di stampa, il personaggio finora anonimo che vediamo nel magnifico Ritratto di umanista di Sebastiano del Piombo che attraverso la collezione di Samuel H. Kress ha raggiunto la National Gallery of Art. Le identificazioni finora proposte (Federico Gonzaga da Bozzolo, Leone Africano, Marcantonio Flaminio) sono rimaste senza il beneficio di un’argomentazione conclusiva. Il dipinto si data, su base stilistica, intorno al 1520: pochi anni dopo secondo Paul Joannides, pochi anni prima secondo Tongiorgi, e comunque quando Fernando Colombo (1488-1539) era sulla trentina.
Perché sarebbe proprio lui il personaggio ritratto da Sebastiano? Più che sulla sua somiglianza con altre (scarse) testimonianze iconografiche, la proposta si fonda sugli oggetti scenograficamente disposti su una scansia, tavolo o credenza alla destra dell’’effigiato: «tre libri con guizzanti lacci di chiusura, un globo, una bussola con la sua tradizionale scatola, un calamaio nel quale è intinta una penna, un manoscritto redatto in calligrafia illeggibile dove si discernono tuttavia alcuni segni». La scatola con la bussola, qui identificata per la prima volta come tale, punta nella stessa direzione (è il caso di dirlo) degli altri attributi, o arredi scenici, tutti intesi a delineare la personalità, l’ethos e le ambizioni del personaggio effigiato. I volumi in ricche legature alludono alla celebre collezione libraria di Fernando che si chiamò Biblioteca Colombina, e con questo nome sopravvive a Siviglia (anche se con gravi perdite); mentre la penna d’oca intinta nell’inchiostro e l’adiacente manoscritto richiamano la sua cospicua attività letteraria (le Historie della vita e dei fatti di Cristoforo Colombo, il cui originale spagnolo è perduto, furono stampate a Venezia nel 1571, e sono ancora di tormentata attribuzione).
Ma il principale argomento per dare a questo umanista severo ed elegante un nome e una genealogia tanto illustre è il globo terracqueo che gli sta al fianco: quel che vi campeggia infatti non è il Mediterraneo con le sue coste così familiari, ma un incerto e sommario arcipelago, che ben corrisponde a «quelle terrae novae che cominciavano ad essere attestate nelle carte nautiche coeve manoscritte o a stampa»: le isole dei Caraibi, dove Cristoforo Colombo aveva incontrato il Nuovo Mondo. La pista sagacemente indicata da Lucia Tongiorgi non è solo cartografica, ma – ancor più persuasivamente – araldica: la lastra tombale prevista per se stesso da Fernando Colombo nelle sue volontà testamentarie, e poi fedelmente eseguita nella cattedrale di Siviglia dove ancora si trova, contiene infatti uno stemma singolarissimo, forse in parte escogitato da lui stesso. È uno scudo interzato, dove alle figure araldiche del castello e del leone rampante si unisce, “in punta” secondo il linguaggio araldico, un squarcio cartografico, con l’arcipelago caraibico sparso nell’Atlantico. Questa stessa figura araldica, di nuova invenzione, ricorre anche in altri stemmi noti di Cristoforo e dei suoi figli, a partire da quello che gli fu concesso da Ferdinando II di Aragona nel 1493, al ritorno dal primo viaggio transoceanico.
All’altezza cronologica del dipinto, la traduzione di quella sommaria cartografia in figura araldica era avvenuta da tempo: perciò è significativo che Sebastiano del Piombo, certo rispettando voleri o suggerimenti del committente, risalisse qui all’indietro dall’astratto vocabolario araldico alla citazione geografica, e dunque indirettamente narrativa. Sotto il pennello di Sebastiano, Fernando si presenta nei panni di un erudito gentiluomo pronto a intraprendere una qualche navigazione (se non tornando da essa), e soprattutto come erede autentico delle avventure e della gloria del padre novi orbis repertor [scopritore del nuovo mondo], come dice la scritta del celebre ritratto che appartenne a Paolo Giovio. Le remote isole saltano fuori dagli stemmi dove si erano ridotte a freddo simbolo e riprendono il loro posto sul globo. Rimandano al dominio dei Re cattolici, ma anche alla prodezza di chi quel dominio aveva esteso, alle rotte che aveva aperto. Sono, potremmo dire, squisitamente in bilico tra vanto familiare, lealismo di suddito, speranza di future conquiste.
Se questo è il cuore del libro, l’autrice non si è fermata certo qui. Ha usato questa occasione per delineare una vasta rete di contatti culturali e sociali, di amicizie e di committenze, dove Fernando Colombo non solo incontra Sebastiano del Piombo, ma gli commissiona anche un ritratto del padre (1519), oggi al Metropolitan Museum, da cui presto deriverà un’acquaforte di Theodore de Bry. In questi percorsi ricchi di sorprese incontriamo anche Agostino Chigi, che dell’opera di Sebastiano si valse alla Farnesina, commissionandogli la gigantesca immagine di Polifemo, a riscontro con la Galatea di Raffaello quasi a suggerire il paragone o la gara fra colorito veneto e disegno centro-italiano. Seguiamo il salto di status di Fernando rispetto al padre, e vediamo le sue ambizioni culturali incarnarsi nella ricca biblioteca. Immaginiamo la vivacità di un ambiente romano che nel raffinato giardino Chigi in Trastevere dava nuovo impulso a quella lex hortorum che sin dal primissimo Cinquecento aveva aperto le porte dei giardini trasformandoli in luoghi privilegiati di ostentazione di cultura e di scultura. A quel mondo di raffinati conoscitori parlava il dipinto di Sebastiano, dichiarando mediante le immagini col loro sottinteso araldico non solo il nome dell’effigiato (che alcuni di loro avevano certo incontrato), ma i suoi titoli di nobiltà culturale e la discendenza di sangue da chi aveva trovato un nuovo mondo por Castilla y por León.