Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2021
Lucrezia, la matrona romana, che dopo lo stupro si uccise
Cherchez la femme, addirittura nella caduta della monarchia e nell’istituzione della repubblica a Roma alla fine del VI secolo a.C. Non fu un progetto politico o una rivoluzione promossa da partiti politici, ma un losco intrigo amoroso e l’effetto del sacrificio cosciente di una matrona.
Durante il regno del settimo re Tarquinio il Superbo – fonte principale saranno Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso – la moglie di suo nipote Collatino, Lucrezia, suscitò le brame di un altro familiare, Sesto figlio dello stesso Tarquinio, il quale in una notte di baldoria la vide e se ne invaghì, entrò furtivo in casa sua mentre era sola, e nonostante le sue resistenze la stuprò. L’indomani Lucrezia rivelò la vicenda al marito e al padre e si trafisse con un pugnale che nascondeva sotto le vesti. La visione del suo corpo inerte esposto in Senato fece esplodere la reazione popolare, i Tarquinî furono cacciati e s’instaurò la repubblica, come a Parigi ventitré secoli dopo.
Oltre a queste, altre implicazioni si addensano intorno all’episodio e alla sua eroina, ispirando tenacemente una serie ininterrotta di poeti e narratori, storici e moralisti fino ai nostri tempi, quando Giraudoux scrive Pour Lucrèce, trasferendo vicenda ed eroina in Provenza nel XIX secolo, e Benjamin Britten musica un Rape [Stupro] of Lucretia sulla brevità e fugacità della bellezza. Tutto ciò, la vicenda e i suoi strascichi e le sue implicazioni politiche e culturali, si vede e si legge in un gradevole e avvincente studio, ben documentato ma non greve, di un latinista dell’Università di Siena, Mario Lentano, che è ben più di quanto recita il sottotitolo Vita e morte di una matrona romana. È uno squarcio di fatti e di idee attorno al nucleo di un fatto storico divenuto mitico e ideologico, che intende presentare a un pubblico vasto un personaggio insediatosi a lungo nell’immaginario e nella nostra cultura.
Si inizia con le descrizioni della bellezza della matrona e gli elogi della sua virtù, fra cui s’insinua anche qualche dubbio e ironia. Tutto bello e bene, ma in sostanza si è uccisa dopo il fatto, dopo essersela goduta, osserverà sarcasticamente qualcuno nel Settecento; mentre in altri autori si fanno luce una gelosia e un’incredulità persino maschiliste: «Lucrezia – scriveva Valerio Massimo – fu dux Romanae pudicitiae al quale per un maligno errore della sorte toccò un corpo femminile».
La cantò dapprima Ovidio nei Fasti, sceneggiando tutta la vicenda e il pudore della donna persino nel momento della morte ai piedi insanguinati del padre, e tratteggiando uno dei ritratti che ispireranno tanti artisti rinascimentali e barocchi: «La sua bellezza era amabile, il viso di neve e i capelli d’oro e le grazie naturali; le parole espresse con una voce piacevole; e quanto meno si poteva sperare di possederla, tanto più la si desiderava». In età medievale e moderna se ne appropriano Dante, in una bella compagnia di donne celebri per la loro pudicizia nel Limbo (Inferno, canto IV: «Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,/ Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia»); e Petrarca in un Trionfo, ponendola in testa a un corteo della Pudicizia a fianco di Penelope. In età rinascimentale un altro sommo duetto si ripresenta al di là della Manica con Chaucer e Shakespeare. Anche in Chaucer, Lucrezia ha una bellezza splendida per la sua purezza senza belletti, che toglie la ragione al giovane Tarquinio e lo fa oscillare come le onde dell’Oceano; mentre nello Stupro di Lucrezia shakespeariano si trova la descrizione più commovente della sua morte, non riuscendo essa nemmeno a scandire il nome del suo violentatore, mentre affonda il pugnale nel suo bianco petto che un tempo conteneva la sua anima. Pierre Bayle le riserva nel suo Dizionario storico e critico (1740) lo stesso numero di pagine (6 in-folio) del successivo Lucrezio, il poeta del De rerum natura.
Lentano scova anche una commedia di quegli anni, Lucrezia romana in Constantinopoli, in cui il giovane Goldoni fa andare Lucrezia a Costantinopoli; lì la riconosce l’imperatore turco Albumazar, stupito di vederla ancora viva dopo essersi uccisa in séguito alla violenza subìta; al che la protagonista spiega con una battuta irresistibile: «Ammazzarmi! Marmeo! Non fui sì matta,/ finsi di sbusarmi il petto/ ed il ferro mostrai di sangue sporco/ ma quello era, o signor, sangue di porco».
Quel suicidio, come quello di Cleopatra mediante il morso di un aspide velenoso, fu del resto anche nelle pitture di Filippo Lippi, del Parmigianino, di Rubens, Tiziano, Tintoretto, Veronese più un pretesto per rappresentare un bel seno che un atto di sublime virtù.
Ma a questo punto sopraggiunge un guastafeste, o come in una causa di beatificazione l’avvocato del diavolo: Sant’Agostino nella Città di Dio con sottili ragionamenti e non senza un po’ di sofistica.
Il collega san Gerolamo era stato generoso con la matrona pagana, ne aveva esaltato anch’egli la pudicizia, la virtù più alta e più rara delle donne così come per gli uomini sono l’eloquenza e i trionfi militari, e ponendola anch’egli in buona compagnia. Ma il suo suicidio, osserva ora Agostino, è pur sempre l’uccisione di una donna casta e innocente, il cui autore deve essere non solo non incensato, ma punito; il suicidio della matrona è un’ingiustizia irrazionale, quindi non esaltabile ma punibile: «Perché dunque esaltate e predicate così tanto l’assassina di una casta innocente?». La quale, da «donna davvero romana fin troppo avida di lodi, si punì per timore che se rimaneva viva si giudicasse che aveva subìto volentieri ciò che da viva aveva subìto», e questo è orgoglio e paura belli e buoni.
Ma, osserverà finalmente un gesuita lassista, il padre Le Moyne, se ciò può essere vero per una donna cristiana, nella religione romana, che erigeva a dee le cortigiane e offriva sacrifici a divinità adultere, Lucrezia violata fu migliore delle divinità stesse, poiché il gesto che compie rende esemplare la sua persona, la sua vita e la sua morte.