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 2021  novembre 21 Domenica calendario

Esce il Meridiano Mondadori su Dacia Maraini

«Sono nata viaggiando», scrive Dacia Maraini nella raccolta di scritti La seduzione dell’altrove. E se è vero, come dice Peter Handke, che «scrivere è un modo tutto speciale di camminare», allora la parola che meglio potrebbe cristallizzare la vita della scrittrice è «cammino». Incessante, instancabile, aggraziato, mai nervoso, forse imprevedibile, certamente non ancora sazio. 
Dacia Maraini ha camminato lungo i decenni come un ponte che unisce il secolo scorso e il tempo presente. Non una cesura, ma un ponte: la sua scrittura ha legato cose lontane tra di loro (per esempio la militanza e la gentilezza), ha cucito la caducità della cronaca alla robustezza della riflessione, ha fatto da collante in alcune amicizie storiche, persino in certi amori. 
E il Meridiano che Mondadori manda in stampa martedì 23 – a cura di Paolo Di Paolo e Eugenio Murrali – non somiglia tanto a un traguardo, quanto a una sosta rinfrescante, dove fermarsi, rileggere, riscoprire. Con la certezza che il cammino andrà avanti, perché Maraini non ha mai saputo «accasarsi» in uno stile o in un genere, né tantomeno in un comodo rifugio ideologico. 
Vista così, raccolta, la sua opera stupisce: il rigore assume una consistenza magmatica e proprio per questo calda, in divenire. Sin dalle opere giovanili come La vacanza (1962), Maraini non ha mai smesso di vivere nel tempo, nel suo e nel nostro tempo. Forse perché figlia di un grande antropologo che si lasciava conquistare dal mondo, forse perché viaggiatrice sin da piccola, bambina girovaga tra l’Oriente e l’Occidente, forse perché la sua timidezza l’ha sempre ancorata ad un ascolto intelligente: di certo non si è mai distaccata da un racconto del presente in divenire. 
Si spiega così la varietà dei registri e dei generi che il Meridiano mette in evidenza: dal romanzo al racconto, dall’articolo giornalistico fino alla scrittura drammaturgica, Dacia Maraini è stata ed è una delle più importanti voci narranti della nostra vita. E anche quando si lancia nelle esplorazioni del passato, come ne La lunga vita di Marianna Ucrìa, in bocca resta la sensazione di qualcosa di fortissimamente vicino: Marianna è tutte le donne costrette ad amare contro la propria volontà, per esempio. Colomba è tutte le donne che, semplicemente, spariscono, fisicamente o soltanto metaforicamente. 
Viene da chiedersi se questa inclinazione a sublimare la cronaca in letteratura sia indole, vocazione o destino. In un certo senso è lei stessa a rispondere, sempre ne La seduzione dell’altrove: «Per me la conoscenza dei Paesi passa prima di tutto attraverso i libri. Non saprei niente di Pietroburgo se non avessi letto Gogol’ e Dostoevskij. Non saprei niente di Mosca se non avessi letto di Lenin e di Stalin e di un bellissimo sogno di redenzione finito stracciato e ferito». Si coglie così il nodo del suo cammino, che è anomalo: rintraccia la realtà nella finzione, assegnando così, di fatto, il primato alla letteratura. 
Questo è evidente anche negli articoli che Dacia Maraini scrive periodicamente per il «Corriere della Sera»: il suo non è mai un conformismo di maniera che all’accaduto (al lancio d’agenzia, per capirci) fa seguire la riflessione autoriale, con omelia d’ordinanza. È lo sguardo della scrittrice che non smette di trovare il romanzo nel presente. Un romanzo mutevole, perché può essere una donna vittima di violenza, un mendicante morto assiderato, la solitudine di un anziano. 
Si può dire che Maraini abbia trovato una lingua compiuta che sta a metà tra la realtà e la costruzione letteraria, un codice che le permette di affrontare innumerevoli temi. L’aborto, per esempio, vissuto in prima persona (una interruzione di gravidanza spontanea) con un dolore che sotto traccia è tornato più volte nei suoi libri. La violenza contro le donne vista da più angolazioni – «Il rapporto di complicità vittima-carnefice resta sconvolgente», ha detto. L’impegno in difesa della natura e degli animali, il sostegno agli anziani. 
E anche quando ha affrontato territori più impervi, come la guerra, Maraini non ha mai smesso di usare quella sua voce ibrida che scende dalle altezze cerebrali e tocca corde più profonde e accessibili a tutti. «Molti pensano che la guerra sia una fatalità, qualcosa di ineluttabile ed eterno, un destino a cui prima o poi dobbiamo soccombere. Perché invece non credere che, così come è stata abolita la schiavitù, anche la guerra possa essere fermata e sostituita dalla contrattazione, dalla diplomazia internazionale e da un sistema di controlli polizieschi?» (da Ho sognato una stazione, 2005). 
Certamente il teatro, da sempre presente nella sua vita, ha giocato un ruolo importante nella costruzione di questa sua dimensione fisica, corporale, tattile. Il romanzo Isolina, tra quelli inclusi nel Meridiano, ha una struttura che richiama con precisione la scrittura drammaturgica: «Si apre una porta. Due piedi calzati di camoscio avanzano con un leggero rumore di foglie schiacciate. Due belle gambe chiuse in una maglia color ocra avanzano nel buio della sala coperta di ragnatele». 
Il teatro per lei è stato, inoltre, il cardine dell’impegno femminista. Impegno declinato in un modo tutto personale: intelligente, colto, ironico. Maria Stuarda, Clitennestra, Charlotte Corday, Santa Caterina da Siena sono solo alcuni dei personaggi a cui Maraini ha dato corpo e non soltanto parole. Ed è importante qui ricordare che la scrittrice ha guidato esperienze di teatro popolare, come quello di Centocelle, alla fine degli anni Sessanta.
Ma non è tutto. L’avvicendarsi continuo di vita, teatro e scrittura (e forse anche il sorriso bellissimo che comincia dagli occhi) ha fatto di Dacia Maraini una singolare figura di «intellettuale familiare». È quella che si lancia in una battaglia per difendere un villaggio disabitato. È quella che interviene per ricordare che tutti hanno diritto a un poco di compagnia. È quella che si appassiona alla storia di una anonima ragazza di paese e magari la trasforma in un romanzo. È quella che premia i giovani autori, che scrive lettere piene di incoraggiamento a giovani critiche letterarie, che organizza serate culturali nel borgo abruzzese che ha eletto come dimora dell’anima. 
Insomma, parafrasando Chimamanda Ngozi Adichie, «dovremmo essere tutti Maraini». E, sì, certamente anche lei sarebbe d’accordo con il titolo originale: Dovremmo essere tutti femministi.