Il resto, assente di pezza da Una pezza di Lundini in tv, vagante come un chierico comico dentro altri spazi (il recente Data Comedy Show , sempre Rai 2), Lundini sta per andare a godersi nei “bei teatri” d’Italia la febbre che si è scatenata all’annuncio del suo tour. Partenza l’1 dicembre da Bibbiano (non ne parliamo), a seguire Bologna e mezza Italia, date che si aggiungono a grande richiesta — Milano a metà dicembre, Roma a metà gennaio. Lo show non è raccontabile: il susseguirsi di spazi, siparietti, gag declamate con veemenza o sussurrate, il maxischermo dove scorrono trovate grafiche da fumettista appassionato — lo è — o da web impazzito. Eccetera.
Il vero problema è dare una definizione a lei senza usare i termini “stralunato” e “surreale”.
«Anche nonsense va fortissimo. Non so che farci, è come quando si parla di Alex Britti e c’è sempre uno che dice: fa canzoni pop molto belle, ma guardate che è soprattutto un grandissimo chitarrista».
Chi è il primo comico che l’ha fatta ridere?
«Da ragazzino, i film americani che chiamavano demenziali. Zucker, Mel Brooks, l’ Aereo più pazzo , Leslie Nielsen. Ma quali demenziali, erano bellissimi. E demenziale viene da demente. Poi ho recuperato i classici veri, Sordi, Manfredi, Totò».
No, perché, a quelli di una generazione precedente sembra impossibile che lei sia nato un anno prima di “Indietro tutta”. Come fa a non esserci Arbore di mezzo in tutto questo?
«Recuperato, e alla grande, anche lui. Videocassette una dopo l’altra, finché ho lavorato anche con Frassica ed ero preparatissimo».
Quando è sul palco cosa sente in risposta dal pubblico?
«Felice della quantità di giovani. E non me lo spiego. Cioè, sì: la Pezza e le altre cose che magari in tv erano di nicchia, venivano poi recuperate su RaiPlay da un pubblico giovane che ormai consuma tv solo così. E quindi mi sento modernissimo: basta che non scoprano che io quando scrivo penso solo ai miei coetanei, o anche a gente più anziana».
Ma piacere ai giovani ha un
valore superiore.
«I giovani hanno una caratteristica: tendono a morire più tardi. E quindi se li hai dalla tua parte ti senti più tranquillo».
Non faccia lo stralunato e tanto meno il surreale. Del resto, studente di Legge, poi molla tutto e va a Lettere.
«Non ce la facevo. Avevo un mezzo sogno, fare spettacolo un giorno e poi nelle interviste dire: sono laureato in Giurisprudenza. Come Paolo Conte.
Ma anche e soprattutto come Checco Zalone».
In effetti fa impressione.
«Non me lo spiegherò mai. Cioè, Checco Zalone ha passato Diritto canonico? Io sono impazzito su Diritto canonico, non capivo nulla e soprattutto non capivo perché. Ora, Checco Zalone, con quel talento, con tutto quello che ti aspettava dalla vita e dalla carriera, ma come hai fatto a passare Diritto canonico?».
La percezione è che uno spettacolo, un umorismo come il suo, con i teatri pieni e la simpatia diffusa: non è che ce ne siano molti in giro. Si sente unico?
«Non lo so, ma non lo voglio dire. Mi sembrerebbe di essere Antonio Rezza. Cioè, io adoro Antonio Rezza.
Ma lui ripete sempre che come lui, con quelle cose che fa lui, non c’è nessuno in Italia».
Ma non è che da grande vuole fare altro? Esempio, Rai 1 la chiama per una fiction da protagonista.
«Ci penso, ma non so se me la sentirei per un impegno lungo, totalizzante, un anno a fare solo quello. Cioè, se c’è da fare il morto in don Matteo vado subito. Ma l’idea di lasciare tutto il resto per tanto tempo non mi attira».
E quindi sul da grande, come la mettiamo?
«Vorrei fare quello che faccio ora, ma con tanti, tanti soldi di budget in più.
Un musical con le mie cose: se servono i cavalli ci sono i soldi per i cavalli e così via. Il vero obiettivo è quello».