Vanity Fair, 17 novembre 2021
Chiacchierata con Ornella Vanoni
Dal salone di un albergo romano un po’ cupo e fané irrompe la voce più famosa d’Italia: «Che allegria!». Ornella Vanoni è nella capitale per doppiare il suo Sette donne e un mistero, remake del celebre film di François Ozon del 2002 e oggi rifatto da Alessandro Genovesi. «Ma nessuno se lo ricorderà più quello di Ozon». Ma come mai da otto donne siamo scese a sette? «Chiamiamo subito il regista, una persona così carina». Chiama il regista. «Senti adoratoooo», dice in milanese-Vanoni. Esiste una voce più inconfondibile in Italia? Ornella più va avanti e più si diverte, sembra avere il gusto del futuro e scrollarsi di dosso la nostalgia. Eppure ricordi ce ne sono tanti per questa cantante e attrice e – una volta tanto la parola non è fuori luogo – icona, nata a Milano il 22 settembre del 1934. Milano Milano? «Certo, Porta Venezia», dice lei. E tra le grandi cantanti che fecero la storia, italiana ed europea, c’erano l’Aquila di Ligonchio, la Tigre di Cremona, la Pantera di Goro; lei non aveva un soprannome territoriale: «Io non ero un animale. Non ero popolare. Ero vestita di nero, i gesti misurati, quindi ero la snob, la stronza. Ero soprattutto timida. Dunque aggressiva come tutti i timidi. Ero solo la Vanoni». Cantante di città, borghesia milanese, «la famiglia veniva da Sondrio, il nonno aveva fatto i soldi come costruttore, uno dei primi di Milano, e mio padre li ha persi tutti, come sempre succede nelle diverse generazioni. Mia mamma che faceva? La signora, giocava a canasta come tutte le signore di Milano». A proposito: parenti del politico Ezio Vanoni, celebre ministro delle Finanze che riformò il fisco? «No, però quando ho cantato per la prima volta, costretta da Paolo Grassi, quel giorno c’era un comizio del ministro Vanoni lì vicino e io, terrorizzata di esibirmi in pubblico per la prima volta, non dormii per venti giorni, e sperai che tutti andassero a sentire lui. Invece niente, il palazzetto era pieno».
Milano del boom e della rinascita. «A casa eravamo felici, perché era finita la guerra, non piovevano più le bombe, eravamo tornati dall’essere sfollati, tutto ricominciava, mia mamma chiamò l’architetto Cascella e fece rifare l’appartamento». Pietro Cascella, quello che fece le tombe di Berlusconi ad Arcore? «No, non lui, un altro». Di Berlusconi lei ha detto che ha una bella voce. «Be’, certo, cantava sulle navi da crociera, è risaputo. Ed era pure carino. Non tanto alto, ma bello di faccia. Io l’ho conosciuto molto prima che iniziasse con la televisione». Ad Arcore è stata? «Si andava a cena da lui come tutti, cantanti e attori, ma nella casa di prima, in via Rovani. A un certo punto mi chiese se volevo fare le canzoni di Apicella», ride. «“Se facciamo un disco di beneficenza, faccio anche Apicella”, risposi». Lei ha fatto anche un programma televisivo con il Cavaliere, Premiatissima. «Ah sì, me l’ero scordato». Ma come la viveva? Col patema d’animo degli scrittori che pubblicano i libri con le sue case editrici e poi se ne vergognano oppure con scioltezza? «Ma vedo che oggi non si vergogna più nessuno. Comunque, soprattutto mi rifiutavo di fare i suoi sketch. Lui inseriva stacchetti di sua invenzione nel programma, terribili, che pretendeva recitassi. Ecco, quelli proprio no. E lui: “Chi non vuol recitare i miei sketch non lavorerà mai più per la Fininvest”, allora si chiamava così». Adesso Berlusconi vuole fare il presidente della Repubblica, che ne dice? «Mah, io non ci capisco niente di queste cose, non mi interessano neanche. Poi il presidente della Repubblica in Italia non è che abbia tutto questo potere».
Inevitabile, a questo punto, la domanda sul craxismo. Milano da bere o «da vomitare, come diceva la mia amica Mariangela Melato. Mi manca molto, una bravissima attrice, sia di comico sia di drammatico». Craxi aveva anche lui una bella voce? «No, ma aveva soprattutto il senso del tempo, diceva una parola e poi la lasciava cadere, immersa nel silenzio. Parlava come un grande leader deve parlare». Lei ha detto anche che lui «ci dette l’illusione di essere felici». «Eh, sì, e non è mica poco, le assicuro. Erano gli anni Ottanta, anni splendenti, ed eravamo tutti belli, ricchi, felici. Su di qua, su di là». E Draghi, oggi, ci dà anche lui l’illusione di essere felici? «Draghi ci dà la speranza di mettere un po’ in sesto questo Paese».
Ma insomma, lei frequentava tutti questi intellettuali, è il contrario di Mina. Lei è nata intellettuale e poi è diventata sempre più pop: adesso si alterna addirittura alla conduzione delle Iene, ma prima c’è stato il video Toy Boy con Colapesce e Dimartino; Mina invece comincia con il pop e poi diventa sempre più intellettuale, con la auto-reclusione in Svizzera, con l’assenza. «Ma non è mica intellettuale scomparire», salta su la Vanoni. E che cos’è, allora? «È stata una scelta, per i noti motivi, poi l’ha cavalcata, è stata furba, ed è andata bene». I motivi sarebbero fiscali. «Eh. E poi io non sono intellettuale. Così come non era un intellettuale Strehler. Il vero intellettuale non si deve fare capire. Se sei un vero intellettuale gli altri non capiscono un cazzo. Virginio Puecher, lui era un vero intellettuale: era un critico e assistente di Strehler, tradusse Il giardino dei ciliegi dal russo. E Strehler doveva poi tradurre lui agli altri, perché non si capiva niente». E Pasolini era un vero intellettuale? «Ah, io l’ho amato tantissimo. Stava sui coglioni a tutti. Lui diceva: “Gli occhi della sinistra e della destra hanno lo stesso sguardo”. Lui era Cassandra». Oggi è diventato un santino, un brand che piace a tutti. «Oggi se tornasse lo ammazzerebbero di nuovo, come Gesù».
La Vanoni ha sempre amato le posizioni nette. Le sue donne, le donne delle sue canzoni, sono diverse da quelle di Mina. Comandano, sono in un certo modo aggressive, insomma non subiscono. Quelle di Mina sono più vittime, più disperate. «Ma anche io sono disperata. Ma se un amore fa soffrire, la mia donna lascia il cuore lì ma se ne va». È mai stata lasciata, lei? Ci pensa un po’. «No, mai. Ma non è mica bello lasciare. Ti prendi tutta la responsabilità». E Milva? «Milva, poverina, ha fatto la strada che Strehler avrebbe fatto fare a me se io non me ne fossi andata. Milva è arrivata a prendere la Légion d’Honneur in Francia, io no».
E qui tocca parlare di Strehler e della storia arcinota con il grande regista, gli anni del Piccolo, cocaina e sesso, grande apprendistato sentimentale e culturale e poi la fuga, della Vanoni, che si mette in salvo. Ma come la presero e come se lo spiegavano, i suoi genitori borghesi, quest’uomo così più grande e impegnativo? «Non se lo spiegavano. Erano ammutoliti». Veniva a casa? Lo vedevano? «Sì, veniva sempre a Natale. Il Natale si faceva da noi». Anche lì, una presenza mica tanto easy. «Portava sempre l’albero, un albero vero, un abete, che fa quel profumo buonissimo, ahhh, che buono, oggi non lo fa più nessuno l’albero vero (gorgheggi in milanese vanoniano)». Insomma arriva Strehler con l’abete, e sembra un’immaginetta edificante, insomma era pure lui come tutti a festeggiare il Natale, allora non era proprio così tremendo. Invece no, ecco che Strehler fa Strehler: «Se i rami non erano piegati giusti, che scendevano giù, lui prima appendeva delle arance vere, per giorni, con dei fili, e con il peso tiravano giù bene i rami, e poi solo dopo qualche giorno lasciava che venissero sostituite con le palle natalizie». Lei andava a teatro da piccola? «Mi ricordo che papà ci portava al teatro Manzoni, a vedere dei balletti, e poi soprattutto andavamo a mangiare la cioccolata con la panna in una latteria lì dietro». E alla Scala andavate? «Ci andavano i miei genitori, tutti eleganti». Se Piccolo vuol dire Strehler, Scala vuol dire Visconti. Com’era? Era veramente stronzo come si tramanda? «Stronzo no, non direi. E comunque prima di Luchino ho conosciuto suo nipote Eriprando, con cui siamo stati fidanzatini da giovani; uscivamo insieme, ognuno con la sua signorina al seguito, ci siamo dati qualche bacetto, anche sulla bocca, ma mai con la lingua, per carità. Aveva quelle sopracciglia molto alte e arcuate tipiche dei Visconti». E Luchino le ha mai regalato dei gioielli, da grande? Era famoso per comprare fantastici doni alle sue star, che magari fino a poco prima aveva maltrattato, da Bulgari o da Codognato a Venezia. «No, a me l’unica cosa che regalò è una bottiglietta che era un rifacimento ottocentesco della bottiglietta del veleno di Lucrezia Borgia. Molto bella, ce l’ho ancora. Presa da un antiquario di Firenze, la vidi in vetrina e lui me la regalò».
Ma insomma, le piace recitare? Non si è mai capito. Adesso questo nuovo film, e poi Senza fine, il documentario di Elisa Fuksas girato in una spa. «Due settimane in un complesso termale che era quello di Mussolini, un posto assurdo, poteva essere ovunque, e un caldo, quaranta gradi. Questo è il cinema». Mi ricordo un film che ha fatto con Ugo Tognazzi, uno strano film che oggi si direbbe distopico, I viaggiatori della sera. Plot: nel 1980, per fronteggiare il problema del sovrappopolamento, una legge ha stabilito che ogni cittadino, al raggiungimento dei cinquant’anni di vita, debba trasferirsi in una specie di resort, in realtà una quasi-prigione, con delle crociere che partono e non tornano mai. «Sì, diretto da lui, da Tognazzi, girato a Lanzarote; ma lui non dava nessuna indicazione di regia, si divertiva soprattutto a cucinare. Il film era tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Simonetta, un personaggio oggi piuttosto dimenticato, ma è quello che inventava i testi di Gaber. Non era una persona molto pubblica», dice la Vanoni. Insomma, le piaceva il set? «Sì, ma ho scelto la musica perché mi diverto di più. Poi la musica ogni volta che canti, ogni sera, a seconda dell’umore, la canti in un modo o nell’altro. O cambi la scaletta del concerto. Invece recitare è sempre uguale. E poi le pause, le attese…». Ecco allora un altro disco in arrivo, Unica – Celebration Limited Edition 2022, in uscita il 26 novembre, con duetti con Gabbani, Sangiorgi «e un nuovo arrangiamento di Essere Ornella con il mio amico Renato Zero. Quanto ci divertiamo insieme». Nel frattempo è arrivata l’auto e ci avviamo verso gli studi di doppiaggio.
Dai finestrini sfila Roma, calda, sterminata, tropicale, così diversa da Milano. «Milano è di nuovo in ripresa. Tutto funziona. Tutto costa tantissimo. Costa come New York. Poi stanno tutti assembrati, in folla, in gruppi; poi vai a vedere, e non c’è niente da vedere». E una cosa che non le piace di Milano? «Sono un po’ isterici. Si danno un gran da fare. A me l’isteria non piace, mi piace la calma». E Roma? «È il contrario. Sembra che nessuno lavori ma lavorano. Ci ho vissuto undici anni. È una città mediorientale. Quando ho fatto Rugantino, nel 1962, diretta da Garinei e Giovannini, dovevo dire la battuta: “Viè qua” (e Ornella fa un “vieqquà” molto milanese e secco, pare di vedere la scena), mentre arriva Aldo Fabrizi, leggenda romana, e mi dice: “No, intanto devi mettere le mani sui reni, vieqquà (ecco un vieqqà morbido e strascicato), so’ così le donne romane”. Capirai, passare da Strehler a Fabrizi...». E dove abitava a Roma? «Prima a Prati, poi sull’Appia». Antica? «Be’, sull’altra Appia mi sembrerebbe un po’ troppo». Abitava vicino a Zeffirelli. «Sì». Dove adesso abita Berlusconi. «Ah, è vero. Pensare che era così bello. La faccia». Ma Silvio l’ha mai corteggiata? «Non poteva, non potevo piacergli. Non avevo la quinta. Adesso ce l’ho, ma è troppo tardi». Siamo arrivati al centro di doppiaggio. Deve mettere la mascherina. Entriamo, stiamo per salutarci. «Quante delusioni», dice Ornella». Dalla vita, intende? «Ma no. Dalle mascherine. Uno vede un paio di occhi bellissimi, poi tira giù la mascherina e magari è un mostro».
Lei ci pensa mai alla tua fine? Anzi: ci pensi? Improvvisamente, senza accorgercene, siamo passati al tu. Qualcuno mi ha raccontato che Ornella non è sempre stata così, che ha delle durezze, ma adesso non si vedono, è chiaramente in uno stato di grazia. «E perché lavoro tanto, secondo te? Questa è come una festa che sta finendo. Può durare ancora uno, due anni, poi basta». È più dura essere vecchi o essere adolescenti? «Per me è stata più dura essere adolescenti». Ti stai divertendo molto, però, almeno sembra. «A una certa età ti liberi da te stessa, guai se non lo fai. Ti liberi dall’ovvio, dico quello che voglio, sono libera. Per esempio a fare Toy Boy mi son divertita molto. Non è che sia un capolavoro, ma mi sono divertita». Lì canti: «Il mio fuoco si è spento/non è più un argomento». Davvero si è spento? Come funziona? Si spegne proprio anche il desiderio? Perché qualcuno, come Philip Roth, sostiene per esempio che la vecchiaia è un cervello desiderante e un corpo che non ce la fa. «Se rimane il desiderio, se è così, dev’essere una cosa terribile. Ma per fortuna per me c’è il cervello che governa tutto. Ci son stati degli uomini, recentemente, che sono entrati nel mio letto. Ma al momento clou, poi, li ho mandati via. Io non ho più voglia di quella cosa lì. Vorrei piuttosto delle carezze, delle tenerezze. Poi quando una è stata bella, sicura del suo corpo, l’ha fatto all’aperto, o con la luce accesa, adesso sarebbe tutto uno: “Spegni la luce”, “Devo andare un attimo in bagno”... No, dai, per carità». E ride. La si sposerebbe per allegria. Ma adesso è pronta per doppiarsi, e aggiungere al suo volto la voce più famosa d’Italia.