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 2021  novembre 20 Sabato calendario

La nuova traduzione dei I fratelli Karamazov


Traduttore traditore. Secondo il senso comune, chi traduce tradisce, cioè travisa. Il suo lavoro sarebbe necessariamente, non per incuria, lavoro sporco, contraffazione. È una banalità. Il traduttore è uno che si immerge nel testo e ne emerge, portando con sé ciò che ha visto per mostrarlo al lettore che non può fare da solo analoga immersione. Poiché la vista non è uguale in tutti i vedenti non è detto, anzi è escluso, che il veduto da uno coincida con quello da un altro. Insomma, le traduzioni nuove sono sempre possibili e desiderate perché sempre nuovi sono gli sguardi. Il traduttore, per quanto voglia spersonalizzarsi, per rendere accessibile un testo immette sempre qualcosa di sé.Dopo quella classica di Agostino Villa che risale a diversi anni fa, esce ora da Einaudi, a cura di Claudia Zonghetti, una nuova, ammirevole traduzione de I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij destinata a diventare anch’essa una versione “di riferimento” e, naturalmente, di confronto con altre versioni. Le traduzioni nuove non sostituiscono, non abrogano le precedenti. Sono arricchimenti. Quali sono le più fedeli? Mah! La quantità di sfumature della lingua russa è tale da offrire al traduttore tante e sempre possibili opzioni. Ciò perché il percorso dal russo all’italiano è da una lingua molto aperta alle sfumature, coloriture, suggestioni, a una lingua, la nostra, dove i termini sono spesso più chiusi. A ciò si aggiunge la necessità di svolgere parole indeterminate per estrarre significati precisi. Per esempio, proprio all’inizio, Dostoevskij scrive qualche frase di cui egli stesso riconosce l’inutilità. Non è una “Introduzione”; è un semplice “Dall’Autore” che nelle traduzioni diventa “Nota dell’Autore”, oppure “L’Autore al lettore”. Nella secchezza dell’originale, c’è un che di autoironico che si perde a non stare alla lettera. L’ultima frase di questa prefazione è: «E ora al lavoro» o «all’opera». Si traduce: «E ora, al sodo», si accentua l’ironia: dopo le divagazioni ora «veniamo al sodo»: scelta libera, sì, ma rispettosa del senso di quelle pagine scritte sì, ma che Dostoevskij stesso dice di non sapere se sono davvero necessarie. Al travaglio del traduttore si può solo accennare. Prendo a esempio il capitolo III del Libro settimo della Parte terza intitolato Una cipollina oIl cipollotto. In russo, dove non esistono articoli, né “il” e “la”, né “un” e “una”, è solo “Lukovka”. Tre opzioni per il traduttore, dunque, si aprono: nessun articolo, l’articolo determinativo oppure quello indeterminativo. Sottigliezze? Per nulla. Il titolo fa riferimento all’apologo, nello stile ingenuo tipico delle novelle popolari russe, che spiega come una semplice piccola cipolla può essere strumento fatale di salvezza o di dannazione eterne. Grušen’ka, la protagonista, contesa dai Karamazov padre e figlio che per lei fanno pazzie, ci si riconosce. Lei è cipolletta. Senza articolo, è lei e solo lei in carne e ossa. Se è “una cipolletta”, è una tra le tante cipollette. Se è “la cipolletta” è un modello disincarnato. Chi è Grušen’ka? Una ragazza unica? Oppure una con tante sorelle? Oppure “un tipo”?Grušen’ka è, come la Nastas’ja Philippovna de L’idiota, una delle grandi, seduttive e complicate giovani “donne perdute”, dipinte in toni teneri e amorevoli da un Dostoevskij palesemente soggiogato dalle creature uscite dalla sua immaginazione. Eccola, la diciottenne e misera orfanella, timida, impacciata, sottile, pensosa e triste, sensitiva, oltraggiata e abbandonata da un vile ufficiale che poi la reclama come suo possesso; la stessa che compare quattro anni dopo venuta fuori come florida e formosa bellezza russa, donna dal carattere ardito e risoluto, superba e impertinente che, in città, molti spasimanti hanno cercato invano di avvicinare coprendosi regolarmente di ridicolo.In ogni dipinto, anche letterario, i dettagli sono importanti e definiscono il significato del quadro. Non è lo stesso dire “sensibile” invece che “sensitiva”, “sbocciata” invece che “venuta fuori”, “misera” invece che “offesa”, “sottile” invece che “snella e magrolina”, “pensierosa” invece che “pensosa”, “formosa” invece che “rubizza”. Rubizzo orienta la comprensione del personaggio verso una contadinotta dai pomelli rossi, ciò che evidentemente non è l’idea di Dostoevskij che, invece, è quella d’una fanciulla proveniente da una famiglia d’un certo livello sociale, capace di gesti raffinati e seduttivi.La treccia bionda e ambrata – passione dell’Autore – cade lasciva sulla sua spalla e poi repentinamente l’aggiusta davanti allo specchio; l’abito che indossa è di seta nera; una leggera acconciatura di trina incornicia il capo; una spilla d’oro ferma la sciarpa che l’avvolge: dettagli certo più vicini ai salotti che alle campagne. È vero che nella parola rumjanyj c’è il rosso, ma si può girarci intorno pensando non ai pomelli rossi d’una rustica ragazza, ma a un incarnato roseo, colorito o forse perfino aggiustato con un poco di trucco. Grušen’ka è chiamata a sostenere una parte di intensa drammaticità, incongrua se affidata a una sempliciotta. Umori e sentimenti, tenerezza e crudeltà, altezze e bassezze, purezza e abiezione, libertà e fatalità si alternano e si contraddicono in un gioco spietato e raffinato. La sfida della lingua si fa particolarmente difficile. La ragazza non ha la forza di sottrarsi alla pretesa del suo antico seduttore ch’ella pur detesta. Le sembra che le sue pretese, in fondo, siano legittime.In cuor suo è legata profondamente a Mitja, anzi Miten’ka (come rendere le sfumature dei tanti vezzeggiativi della lingua russa?), il passionale fratello di Alëša presente al momento traumatico della partenza di lei per raggiungere il capitano. Con voce sonora sempre più rotta e piena di pianto, si lascia andare a questa struggente confessione e confusione dove troviamo sensi di colpa e tentativi di discolpa, ribellione impotente, soggezione al destino e suggello crudele d’un amore impossibile. È un passo potente in crescendo. Dice ad Alëša di salutarle il fratello Miten’ka: non le porti rancore, anche se lei gli ha fatto del male. È toccata a uno di poco conto e non a una persona di valore, come è lui. Aggiungigli – sospira – che Grušen’ka gli ha voluto bene per il tempo d’una oretta e, anche se è stata soltanto un’oretta, di questa oretta porti il ricordo per tutta la vita che gli resta. Questo ti ordina Grušen’ka! Dal “gli” al “ti” c’è un rovesciamento di punto di vista: prima, il discorso è indiretto, attraverso l’incarico affidato al fratello; poi, l’apostrofe drammatica si rivolge direttamente a Mitja, come se fosse lì, a tu per tu. Una sottigliezza? No, una drammatizzazione che, con una qualche sottolineatura linguistica – per esempio: questo è l’ordine che a te Grušen’ka ha dato – sarebbe bene cercare di non perdere.Sono solo spunti, ma sufficienti per dire quanto banale è il motto con il quale abbiamo iniziato. Tradurre è cosa che non ha a che fare col tradimento nel senso corrente del termine. È ben altro. È un suscitare, anzi un ri-suscitare sempre di nuovo. Questo è ciò che si fa nell’opera immane che Claudia Zonghetti ci propone per gli anni a venire nella sua versione de I fratelli.