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 2021  novembre 20 Sabato calendario

Intervista a Rosita Missoni


Bernadine Morris, temuta corrispondente del New York Times, definì la maglieria Missoni “la migliore del mondo” (novembre 1971). Diana Vreeland, storica direttrice di Vogue America, quando scoprì le caleidoscopiche creazioni di Ottavio e Rosita Missoni esclamò: “Chi ha detto che esistono solo i colori? Ci sono anche i toni”. E il Guardian chiosò: “I Missoni hanno indicato una nuova dimensione alla maglieria di tutto il mondo”. In quasi settanta anni di attività (la loro azienda nasce nel 1953) i Missoni hanno scritto una pagina fondamentale dello stile. Rosita Jelmini Missoni continua a lavorare senza sosta per la linea casa della griffe. E oggi, nel giorno di sant’Ottavio, compie novant’anni: «Avevo 17 anni, mi trovavo a Londra in una vacanza studio, e andai allo stadio a vedere le Olimpiadi», racconta. «Tai (Ottavio, ndr ), che era un apprezzatissimo atleta, partecipava ai 400 metri. Mi colpì immediatamente perché indossava la maglia 331, la cui somma fa sette, il numero fortunato della mia famiglia.
Era un segno».
La vostra storia è stata costellata di coincidenze.
«L’incontro londinese si trasformò presto in amore... Il giorno successivo ci incontrammo sotto la statua di Cupido in Piccadilly Circus, poi sul treno per Brighton.
Tornata a casa, mesi dopo, lo invitai al mio compleanno a Golasecca (provincia di Varese, città natale di Rosita, ndr ). Si presentò con un ironico disegno, sotto c’era scritto “belli come noi la mamma non ne fa più”. Ci siamo sposati nel 1953».
Come è nata la vostra azienda?
«La mia famiglia aveva una fabbrica di scialli e tessuti ricamati. Tai, in società con un amico, aveva iniziato a realizzare tute sportive per gli azzurri d’atletica.
Così è stato abbastanza naturale continuare in questo settore».
Come vi siete divisi i ruoli?
«Tai aveva uno straordinario senso per il colore. Io organizzavo le collezioni e pensavo le forme.
Mi ricordo ancora il suo debole per le sfumature di viola. Era una lotta costante. Il viola, specie tra gli attori, non porta bene, ma lui mi supplicava...».
Nel 1967 avete debuttato sulla prestigiosa passerella della Sala Bianca di Palazzo Pitti.
«Fu un’esperienza disastrosa.
Durante le prove mi accorsi che i reggiseni delle indossatrici trasparivano da molti modelli.
Così ho ordinato di toglierli non tenendo conto che, sotto i riflettori della sfilata, i nostri sottili abiti di lamé si sarebbero rivelati trasparenti. Fu uno scandalo.
I giornali definirono la sfilata: “Collezione Crazy Horse”».
Nonostante lo scandalo fiorentino, di lì a poco sarebbe arrivata la grande notorietà internazionale.
«Sì, un giorno, alla fine degli anni 60, mi chiama Consuelo Crespi, allora corrispondente di Vogue per l’Italia, dicendomi: “Infila in valigia un po’ di cose e corri a Roma che domani arriva Diana Vreeland”.
Mi precipitai al Grand Hotel e la signora Vreeland, incantata dai nostri abiti, ci invitò a presentarli a New York, spalancandoci le porte degli Stati Uniti».
In quasi settant’anni di attività quale è stato il riconoscimento che
più l’ha riempita di orgoglio?
«Forse l’Oscar della moda che abbiamo ricevuto nel 1973 dai grandi magazzini Neiman Marcus, in fondo è stato il nostro primo grande premio».
C’è una frase di Ottavio rimasta storica: “Per vestire con cattivo gusto non è necessario seguire la moda, però aiuta”.
Lei la moda come la vede?
«Missoni non ne ha mai proposto una, Missoni incarna uno stile.
I nostri prodotti non devono essere comprati per un’occasione speciale, ma soltanto perché uno li ama e sente che li potrebbe indossare sempre».