La Stampa, 20 novembre 2021
L’illanguidimento è l’emozione dominante del 2021. Lo dice il New York Times
Quell’irresistibile leggerezza dell’essere. Per il cui raggiungimento scatta l’irrefrenabile voglia di mollare tutto – o, almeno, di tirare i remi in barca e di staccare la spina. E, dunque, a differenza di quanto recitava il titolo del romanzo di Milan Kundera, per sempre più persone la leggerezza del vivere, ben lungi dall’apparire «insostenibile», si è convertita in un obiettivo da perseguire costi quel che costi. Il languishing – l’«illanguidimento» – rappresenta per il New York Times l’emozione dominante del 2021, e la tendenza dell’anno. E, certo, novembre è un mese «perfetto» per illanguidirsi.
Tuttavia, qui non siamo al cospetto del ciclico ripetersi di una periodica «sindrome autunnale». Bensì, come sottolineava sul quotidiano newyorkese lo psicologo della University of Pennsylvania Adam Grant, di un generale «senso di vuoto e stagnazione» e di perdita di motivazioni rispetto al futuro da parte di individui che non stanno affatto in uno stato di burnout o esaurimento. Un ulteriore sintomo di uno spirito dei tempi negativo e composito, nel quale si saldano elementi e fenomeni che hanno sgretolato il novecentesco «principio-speranza» (per dirla con la formula di Ernst Bloch). Ovvero, la nostra come l’«epoca delle passioni tristi» descritta dagli psicanalisti Miguel Benasayag e Gérard Schmit. E quella abitata dalle generazioni più giovani dette «No future», schiacciate dal presentismo, e appunto deprivate di un orizzonte di miglioramento della propria condizione personale e collettiva.
Sempre la «Signora in grigio» del giornalismo (il soprannome più noto del New York Times) è ritornata sul tema di recente, occupandosi della filosofia della «Grande rinuncia», simboleggiata dal ritiro dalle Olimpiadi di Tokyo della superginnasta Simone Biles, che ha esternato pubblicamente il suo stress emotivo attraverso la metafora dei «demoni nella testa».
Una fatica e una debolezza umane, troppo umane, con cui venire a patti, abdicando all’immagine pubblica di donne e uomini quali wonderwomen e supermen su cui è stata fondata la cultura sociale della performance e della crescita senza limiti degli Stati Uniti. Siamo, quindi, di fronte alle avvisaglie di un potenziale cambio di paradigma, mentre aumenta progressivamente il numero di coloro che, proprio in America, «scelgono il pit stop» e rinunciano alla carriera, pensando che il gioco non valga più la candela. E abdicano pure alla progettazione a lungo termine della propria esistenza, e perfino a impegnarsi non «a tempo determinato» negli affetti.
In diversi, pertanto – in un numero inimmaginabile fino a non troppo tempo fa –, scelgono per così dire di vivere alla giornata, puntando a equilibri diversi e «più umani», dei quali però non v’è certezza. Una scommessa al buio quella dell’illanguidimento, determinata dalla stanchezza e dall’insostenibilità della vita. E, allora, «fermate il mondo che voglio scendere», disponibili a pagare un prezzo elevatissimo come quello di lasciare il più fondamentale dei fondamentali, il lavoro, perché insoddisfatti e affaticati.
Si tratta di processi in essere già da prima della pandemia, ma che l’emergenza sanitaria – col suo immenso fardello anche psicologico – ha fatto deflagrare. C’è chi legge la tendenza in termini molto positivi, come i teorici della «decrescita felice» (un aggettivo sul quale ci sembra doveroso eccepire per molteplici ragioni, ma che ora possono appellarsi all’incremento di questi casi di infelicità «da sistema»). E come gli alfieri dello slowdown, a partire dal geografo sociale dell’Università di Oxford Danny Dorling, autore del libro Rallentare (Raffaello Cortina). Il «rallentamento» ha ricevuto un’ulteriore, impressionante spinta dal Covid-19, ma, dati alla mano, era in corso già da un po’, dando così il colpo di grazia definitivo a quella idea forza dell’Occidente che ha coinciso a lungo con il progresso. E la cui caduta contribuisce significativamente anche a spiegare il diffondersi della propensione verso il languishing. Secondo lo studioso britannico, l’era della decelerazione è iniziata, in molti ambiti cruciali – dalla denatalità al decremento della produttività, sino alla stessa innovazione tecnologica – già durante gli anni Settanta. E, a suo giudizio, si tratterebbe di un fatto positivo, poiché la fine della «Grande accelerazione» e la deglobalizzazione permetteranno di preservare meglio l’ambiente, ridurre le disuguaglianze e stabilizzare l’economia su scala planetaria.
Una visione, quella dei decelerazionisti, che si sposa con l’istanza del superamento dell’antropocentrismo e di una politica ricondotta esclusivamente alla tecnica, come invocano l’epidemiologo Paolo Vineis e il filosofo dell’Università del Piemonte orientale Luca Savarino nel loro La salute del mondo (Feltrinelli). E che costituisce il volto umano – e non catastrofista – della «collassologia», la quale predica da un ventennio la non sostenibilità della Megamacchina (come l’ha chiamata Serge Latouche) e la «fuoriuscita dal sistema». Una secessione dolce che prende le forme della transumanza verso la campagna, un’altra tendenza sociale dilagata in seguito alle varie ondate del coronavirus. Quelle campagne e villaggi dove i costi sono minori e la vita presenta apparenze più autentiche – e dove, in coerenza con l’illanguidimento, assistiamo a una moltiplicazione del modello di quella che potremmo definire la «comune del cocooning».
Un’esistenza con lentezza in linea con la filosofia dei consumi di SlowFood, che ha celebrato in questo periodo un ulteriore rilancio della propria agenda culturale e politica. E, si potrebbe dire, per rispolverare un «classico moderno» della cultura pop all’italiana, che si tratta anche di un ritorno di fiamma per la concezione messa in scena col sorriso ne Il ragazzo di campagna di Castellano e Pipolo (peraltro riscoperto di recente come uno dei primissimi film – correva l’anno 1984 – satireggianti il mood della «Milano da bere»). E ancora, per stare più sull’attualità, siamo in presenza di un trend che si sintonizza molto bene con la sensibilità espressa dalla «generazione di Greta» e dei Fridays for Future.
Stando, però, anche attenti a non sottovalutare il dark side del pensiero ecologista, come denuncia Roberto Della Seta – che di ambientalismo se ne intende assai – nel suo Ecologista a chi? (Salerno editrice), quando giustamente chiede che abbandoni certi suoi pregiudizi dichiarati o malcelati nei confronti della scienza e della tecnologia. Specie mentre viviamo ancora tutti sotto le sferzate del virus. —