ItaliaOggi, 20 novembre 2021
Osri & Tori
C’è un’equazione nel sistema Italia che appare irrisolvibile e che sarebbe bene che il presidente del consiglio Mario Draghi affrontasse per risolverla.
Come ripete spesso il presidente della Consob, Paolo Savona, da fine economista qual è, l’Italia ha due asset fondamentali: la straordinaria capacità di esportare delle aziende del paese e l’enorme risparmio nazionale, secondo solo dopo il Giappone, ma il più alto in assoluto in Europa. Il primo paradosso dell’equazione è che il risparmio italiano, sicuramente generato anche dagli ottimi rendimenti che lo stato ha pagato sul debito pubblico e quindi esso stesso interfaccia del debito, finisce per il 75% all’estero, attraverso fondi di gestione e altri investimenti. A parte poi i 1.700 miliardi sui depositi bancari.
Risultato: il risparmio italiano per 2/3 va a finanziare lo
sviluppo di altri paesi. Il paradosso dell’equazione appare ancora più macroscopico nel momento in cui, e giustamente, si esalta l’opportunità dei 261 miliardi diretti e indiretti legati al Pnrr e raccolti sul mercato dall’Unione europea, ma che in buona parte dovranno essere restituiti dallo stato italiano. Per carità, ci mancherebbe non apprezzare il Pnrr, anche perché è una sorta di grimaldello perché vengano fatte in Italia le riforme e le scelte di efficienza che mancano da decenni. Ma appunto, contemporaneamente, non si può ignorare il paradosso del più alto risparmio che va in misura così alta all’estero, mentre potrebbe finanziare lo sviluppo italiano.
Ma perché questo non succede?
Non per annoiare ancora una volta i miei due o tre lettori, ma la prima causa di ciò è storica e appartiene al sottosviluppo permanente del mercato dei capitali per eccellenza, cioè la Borsa. È necessario ripetere che la mancanza di un mercato dei capitali adeguato al peso economico del paese, che è simile a quello della Francia, affonda le sue radici in quella scelta, comprensibile allora nell’immediato dopoguerra ma non dopo, di autorizzare solo una banca d’affari, Mediobanca, che ha dedicato tutte le sue energie a poche grandi famiglie imprenditoriali italiane, di fatto, anche se non volontariamente, usando la Borsa praticamente al solo servizio delle stesse.
Negli anni 80, con enorme ritardo, furono fatti nascere giuridicamente anche in Italia i fondi comuni di investimento. Cominciò la raccolta e naturalmente, con la limitatezza del listino italiano, i soldi raccolti non potevano che essere investiti nelle borse estere. Il fatto è che per quel ritardo oggi sul mercato principale di Piazza Affari sono quotate 350 società, contro le 846 della Francia, ma se non si contassero le società provenienti dall’ex-Aim, si scoprirebbe che il listino attuale è più povero di quello di 35 anni fa. Peraltro, anche sull’ex Aim, ora E(uronext) G(rowth) M(ilan), che, mi ripeto, dovrebbe essere indicato almeno in sigla (EGM) e con il nome della città, Milano, in lingua italiana, sono quotate 150 società, più o meno il 35% di quante ce ne sono all’Euronext growth di Parigi. Segno più evidente che pur essendo l’Italia un paese sicuramente capitalistico, il capitale di investimento interessa poco al governo, perché diversamente sarebbero stati presi o dovrebbero essere provvedimenti adeguati.
Il grave è tuttavia che al paese come tale e ai governi che si sono succeduti fino a quello attuale, non sembra interessare neppure lo sviluppo delle pmi, un tempo finanziate al 93% dalle banche, le quali oggi non possono più farlo in conseguenza dei lacci e lacciuoli o meglio della rigida disciplina imposta ad esse a livello europeo. Dal 2011 le banche italiane hanno ridotto di circa 275 miliardi di euro (27%) il credito alle imprese. Le banche hanno viceversa incrementato di 185 miliardi l’investimento in titoli pubblici italiani, raggiungendo a maggio uno stock pari a 430 miliardi (solo 1/3 in meno rispetto ai finanziamenti alle imprese).
Nel resto d’Europa esistono altri intermediari che surrogano le banche. Si tratta di chi organizza fondi di credito, che in Usa si chiamano private debt. Esistono anche in Italia ma la raccolta e quindi il credito erogato a medio e lungo termine arriva appena a 1,3 miliardi contro i quasi 6 della Francia e i 90 a livello europeo.
A giugno del 2014 il governo allora in carica si impegnò a liberalizzare i canali di finanziamento alle imprese, indicando l’obbiettivo di raccogliere almeno 20 miliardi di euro aggiuntivi rispetto a quelli forniti dalle banche. Per non citare i numeri americani dei fondi di credito, che sono pari a molte centinaia di miliardi di dollari di raccolta e di erogazione. Da allora, come detto, la raccolta è stata lontanissima dall’obbiettivo dei 20 miliardi.
Il presidente Draghi, pur impegnato su mille fronti, non dovrebbe esimersi da mettere a punto interventi che facciano sviluppare l’attività dei fondi di credito. In passato la loro funzione era assolta da banche a medio termine, come Interbanca, Centrobanca ecc., che sono scomparse, assorbite dalle banche ordinarie. Inevitabilmente perché, dovendo rispettare le regole bancarie, si trovavano sbilanciate.
È interessante il caso della Germania, dove il finanziamento alle pmi è stato sempre garantito in larga parte dalle casse di risparmio e le landesbank. E le autorità tedesche hanno sempre protetto queste banche, riuscendo a tenerle fuori dalle regole e dai controlli europei. Cosa che non è avvenuta in Italia con le banche a medio termine, appunto completamente scomparse.
Una situazione come questa rende ancora più necessaria la presenza sul mercato di intermediari specializzati nel credito. Ma perché essi si possano sviluppare è necessario che i fondi, come avviene in altri paesi, vengano anche da investitori istituzionali. In Francia, l’ex-presidente Nicolas Sarkozy, quando si rese conto dell’inevitabile processo di concentrazione del sistema bancario, intervenne perché i fondi di credito potessero svilupparsi. Convocò le compagnie di assicurazioni prospettando inasprimenti fiscali o sconti fiscali a seconda che una parte della raccolta non fosse o fosse investita nei fondi di credito. Le compagnie di assicurazione italiane ritengono di essere già troppo esposte sul paese e quindi non investono, al pari di altri investitori istituzionali in fondi di credito italiani. È la scelta di Generali, di Cattolica, e anche di Posta Vita e un po’ di tutto il sistema. Però investono in fondi di credito all’estero. Fino a poco tempo fa, nel rendiconto di Ania si poteva leggere che il sistema assicurativo italiano aveva investito in quasi 40 miliardi in fondi di credito estero. Ora l’Ania non pubblica più questi dati, forse per non mostrare la scelta discriminatoria di quasi tutti i suoi associati. Anche alcune banche, come Intesa, hanno investito in maniera significativa in questi strumenti esteri. Risulta che Intesa Sanpaolo, che è sicuramente con la Banca dei Territori l’istituto che fa di più per le pmi, ha investito un centinaio di milioni in un fondo di credito internazionale.
Rispetto alle defunte banche per il credito a medio termine, per gli squilibri che le caratterizzavano specialmente in periodo di tassi molto alti, i fondi di credito sono sicuramente più stabili perché al passivo, rispetto all’emissione di bond e certificati di credito hanno capitale. E così possono compiere, a vantaggio delle pmi, anche operazioni meno bancabili. Insomma, il loro sviluppo, assolutamente non risolutivo sui problemi del credito in Italia, può dare tuttavia un aiuto non indifferente alle pmi.
Perché decollino è necessario che avvenga in Italia quanto è già avvenuto in Francia e che ci sia un forte incentivo.
Finora in Italia si è puntato sui minibond, emessi effettivamente per pochi milioni, o i Pir, che tuttavia, anche se di nuovo riformati, finiscono per investire soprattutto sulle società quotate. Ma come si sa, il mercato borsistico italiano è più o meno l’equivalente di un catino e quindi si ritorna da capo.
Come del resto per far decollare il mercato EGM serve un fondo, anche a capitale pubblico, che garantisca la liquidità del mercato ora. Molto scarsa, come per lo sviluppo dei fondi di credito, e occorre ugualmente un intervento importante da parte di importanti operatori. In questa direzione è da tempo che si parla di un Fondo dei Fondi sottoscritto da Cdp e da alcuni fondi pensione, che sono soggetti ideali per sottoscrivere fondi di credito, ai quali deve arrivare liquidità per chiudere il cerchio del finanziamento. Di questo Fondo dei fondi si parla appunto dal 2014 quando al governo c’era Renzi, con ministro dell’economia e finanze, Pier Carlo Padoan. Sembra che dopo quasi sette anni il fondo stia finalmente per essere varato con l’intervento del fondo italiano di investimento. Si ipotizza una raccolta di 500 milioni di euro, ma per incidere l’obbiettivo dovrebbe essere assai più importante.
Da alcuni mesi al vertice di Cdp come amministratore delegato c’è un manager di respiro ed esperienza come Dario Scannapieco, che aveva lavorato con Draghi alla direzione del tesoro, e poi per molti anni si è distinto proprio nel campo dei finanziamenti come vicepresidente esecutivo della Banca europea di investimento. Sarebbe fondamentale che il Fondo in partenza funzionasse da Cornerstone investor, cioè da investitore fondamentale per trascinare con sé fondi pensione, fondazioni bancarie, e appunto anche i capitali delle compagnie di assicurazioni. Cioè tutti investitori che possono essere pazienti, appunto in grado di vedere i risultati a medio e lungo termine.
Che cosa può fare il presidente Draghi per provocare lo sviluppo di fondi di credito? Imitare Sarkozy con selettivi benefici fiscali, che sarebbero facilmente recuperati dalle casse dello stato nel momento in cui i capitali raccolti dai Fondi e prestati alle pmi determineranno sviluppo anche delle aziende che non vengono finanziate dalle banche.
Non si risolverà certo con i soli fondi di credito il recupero del risparmio italiano che ora va all’estero, ma se il meccanismo funzionasse si avrebbe un segnale importante, strutturando pmi in grado di andare in quotazione dopo l’esperienza di aver avuto finanziamenti a medio e lungo termine che già di per sé impongono un allenamento alle regole del mercato.
Quanto ItaliaOggi sostiene è che per quanto la gestione e il successo del Pnrr possa essere fondamentale in questa fase del paese, ci sia l’occasione più importante di riportare in Italia almeno la metà del risparmio italiano che oggi è all’estero e che quindi insieme all’opportunità dei fondi di credito debba essere fatto un piano nazionale per far arrivare al EGM almeno mille pmi, con una progressiva scalata delle stesse al mercato principale. Signor Presidente del Consiglio, che avvenga quanto ha detto ai sindacati e cioè «io a marzo sono qui», quindi a Palazzo Chigi o al Quirinale; considerata la sua abilità di essere sibillino, non si dimentichi di concepire e varare provvedimenti fondamentali per lo sviluppo dell’Italia attraverso il recupero del risparmio italiano oggi finanziatore delle economie estere, mentre di investimenti di risparmio estero in Italia c’è ben poco. Non è una politica nazionalista, che lei mai compirebbe in una visione europeista, ma un rimedio agli errori del passato. (riproduzione riservata)