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 2021  novembre 19 Venerdì calendario

Intervista a Flavio Insinna

F lavio Insinna, qui, negli studi Rai «Fabrizio Frizzi», il suo camerino è l’unico che non abbia il nome affisso sulla porta.
«Perché tutto potrebbe finire da un momento all’altro. Non sono uno di quelli che vanno in giro a dire “la Rai è casa mia”. Però io ho fatto i “pacchi” e mi sono divertito come un matto, ho fatto e sto facendo L’Eredità e mi diverto come un matto. E allora sarò sincero: se finisse domani me ne andrei con serenità, ringraziando».
Non ci crede nessuno.
«È vero. Lo diceva sempre il mio maestro, Gigi Proietti. Prima di provare, a teatro, ci ricordava che “non stiamo operando a cuore aperto”, che non stiamo facendo cose imprescindibili per il destino del mondo. Siamo attori, tutto qui».
Il teatro è anche autocoscienza. Crede che i lunghi anni sul palcoscenico abbiano affinato in lei una specie di fatalismo?
«Forse. Mai avuto gusto per la poltrona. Vede che poltrona tengo in camerino? Una sedia da barbiere. E non ho foto con Tizio o con Caio. Casa mia potrebbe essere di chiunque: c’è solo uno scatto assieme a Fabrizio (Frizzi, ndr), perché a quello ci tengo troppo. Non sopporto quelli che commemorano i defunti parlando di sé stessi e si mostrano in foto con personaggi famosi che non ci sono più e che non possono ribattere».
E non ama nemmeno la parola «gavetta».
«Potrei raccontarle di quando io e Gabriele Cirilli ci dividevamo una matrimoniale per risparmiare, ai tempi delle tournée. O di quando mi feci seicento chilometri, in pieno agosto, per andare a fare un provino e, appena salito sul palco, mi liquidarono con un “non funzioni fisicamente, ciao”. Ma mi vergognerei. Non stiamo operando a cuore aperto, appunto».
Però quando fece l’esame per entrare nel Laboratorio di Proietti lei consegnava mobili.
«Sì e mi ricordo che quando il maestro mi fece l’esame finale, quello che avrebbe deciso la sottilissima lista degli ammessi, io, terrorizzato, provai a dissuaderlo. “Ma perché, lavori già?”, fece lui. E io: “Sì, do una mano a mio cugino”».
E questa paura del pubblico c’è ancora?
«No, ma guardi quei fogli lì, sul divano: sono gli appunti sui concorrenti della trasmissione. So tutto di loro, persino quale gusto di gelato preferiscono. Gigi diceva: “poi magari quelle informazioni non le userete, ma mettetele da parte, l’improvvisazione deve venire dopo”».
Com’è arrivato a fare «Don Matteo»?
«Per caso. Andai da Costanzo a parlare della nostra compagnia, La Cometa, e tra il pubblico c’era Enrico Oldoini, il regista della serie. Venne a vedermi in teatro, mi volle nel cast. Dico solo una cosa: se Don Matteo ha resistito così tanti anni secondo me si deve soprattutto alla professionalità di Terence Hill. Io non l’ho mai visto prendersi un caffè, è stato sempre con noi, con il caldo bestiale e con la neve di Gubbio. Ma se le racconto come iniziò la carriera negli show in televisione è ancora più divertente».
E cioè?
«Per un microfono aperto».
Interessante, vada avanti.
«Avevo fatto Don Bosco, miniserie tv. Mi premiarono a Saint-Vincent, le grolle, le star e tutto. Sul palco c’era Fabrizio. Il mio turno arrivava tardissimo, quando tutti non pensavano che alla cena. Quando Frizzi mi chiamò, io non sapevo di avere il microfono acceso e così dissi: “Ma devo proprio?”. Risate in sala. Mi accorsi di avere fatto una figuraccia e allora con Fabrizio cominciai a fare lo scemo, con battute a ruota libera. Qualche tempo dopo mi chiamò la mia agente e mi disse: “Ma che hai combinato a Saint-Vincent?”. E io: “Oddio, mi puniscono?”. E lei: “No, ti vogliono dare Affari tuoi”. Ero morto».
Paura, eh?
«Non scherzo quando le dico che mi ci portarono di peso. Io stavo facendo una sit-com e il camerino era proprio davanti agli studi di Affari tuoi. Io tremavo: finirà dopo tre puntate con scorno di tutti, mi dicevo. Mi presero a forza e ho le prove: la primissima mia puntata della trasmissione l’ho girata con gli abiti della sit-com».
Andò bene.
«Sì ma nessuno sa che alla fine della prima stagione mi venne uno sfogo su tutto il corpo, una specie di eritema da stress. Papà faceva il medico: mi fece una iniezione e mi disse “sta’ attento”. Povero papà, non c’è più da qualche anno. All’inizio non accettava che io facessi l’attore ma ha cominciato a cedere quando ha visto che facevo quel mestiere con la stessa serietà con cui avrei fatto l’avvocato».
«L’Eredità» è una specie di messa laica per molti. Alcuni insospettabili.
«Be’, Walter Veltroni lo vede. Ma se poi parliamo dei ghigliottinisti...»
Cioè di quelli che tirano a indovinare la parola della Ghigliottina?
«Gigi D’Alessio è un cecchino. Non ne sbaglia una. Luca Barbarossa è un altro: manda le risposte su WhatsApp ma io controllo sempre che siano regolari, cioè che non le abbiano mandate una volta risolto il quiz. Il più matto di tutti però è Diego Abatantuono».
Che fa?
«Allora, lui manda la sua risposta ma se questa è sbagliata mi fa arrivare dei messaggi vocali di un’ora in cui mi spiega perché, secondo lui, abbiamo sbagliato noi. Ma capisce?!».
Insinna, lei è uno dei pochi che riesce a infilare nell’intrattenimento più nazional-popolare anche dei temi delicati. Come la caccia.
«Guardi che quella volta fu una frase che mi venne spontanea, nulla di preparato. Tra le parole dell’Eredità venne fuori anche “caccia” e io, con naturalezza, dissi che finché ci sarò io la caccia in trasmissione non ci sarà».
E i cacciatori la presero di mira. Metaforicamente, certo.
«Minacce di morte a me e alla mia famiglia, minacce di boicottaggio dei prodotti delle pubblicità interne al programma. Lasciai spegnere tutto, diciamo che ci ho guadagnato la stima di qualcuno che prima non mi seguiva ma che la pensa come me. Il punto è che mamma e papà mi hanno fatto leggere libri. E oggi posso dire, con Gramsci, che io “odio gli indifferenti”».
Il legame con Gino Strada e con Emergency, quello con il sindacalista Aboubakar Soumahoro.
«Be’ ma allora mi faccia ricordare il sostegno alla cooperativa “Al di là dei Sogni” nelle terre confiscate alla camorra, a Sessa Aurunca. Io non ci vedo niente di eroico, anzi. Le dirò di più: a me sembra incredibile che lo Stato non chieda a me o a quelli che stanno meglio di me un contributo, anche piccolo, che so, diecimila euro, per sostenere chi vive in condizioni peggiori. Posso dire un’altra cosa che penso?».
Prego.
«Penso che siamo un Paese troppo armato. Ho studiato la legge, ti permettono di possedere diversi tipi di armi. So che dire questo può costarmi molto, ma lo dico: per me le armi dovrebbero stare esclusivamente nelle mani delle forze dell’ordine. Un musicista che conosco ha perso la sorella: uccisa dal marito con il fucile da caccia».
Le armi, i migranti, il sostegno finanziario ai deboli. Temi delicatissimi che raramente un personaggio televisivo così «esposto» sfiora.
«Ne so qualcosa. Ma le persone che piacciono a me mi seguono. Io ci sono andato nei luoghi degli sbarchi e ho visto quanto scotta il cemento negli approdi. E quelle persone arrivano senza scarpe. Una delle cose più belle che mi siano capitate è stato quando il presidente Mattarella ha voluto premiarmi per aver venduto una barca e aver donato il ricavato per finanziare i corridoi umanitari. Lo so che molti non la pensano come me. Pazienza».
Il ricavato de «Il gatto del Papa», la sua favola natalizia che esce il 25 novembre per RaiLibri, andrà in beneficenza?
«Sì, va tutto a Emergency. Ma a questa favoletta ci tengo: immagino un gatto che incontra il Papa e tutti e due imparano qualcosa da questo scambio. Tutto nasce da una bellissima serata romana, quando, passando vicino a San Pietro, vidi un gatto tra le colonne sparire immediatamente e in modo inspiegabile. Mi dissi: e se fosse andato da Sua Santità? Non son degno neanche di nominarlo papa Francesco: ho un’ammirazione infinita per quell’uomo».
A proposito di gatti.
«Eh, vivo in uno zoo. Intanto c’è il cane della mia compagna (Adriana Riccio, ex concorrente di Affari tuoi, ndr) la quale ha adottato anche me oltre a lui. Poi c’è la tartaruga della mia famiglia, che oggi ha 60 anni e che ci ha visti crescere, a me e a mia sorella. Ho avuto cornacchie, gatti di ogni tipo, conigli».
Ma dice di non volere figli.
«Sarei un padre troppo poco presente. Solo per questo. Io ho avuto la fortuna di avere dei genitori sempre accanto a me, nonostante all’inizio non accettassero la mia carriera di attore. Però mamma fece da paciera: andava da papà e metteva una buona parola, poi veniva da me e faceva lo stesso. Temo che non sarei all’altezza».
Flavio, c’è un errore che non rifarebbe?
«Sì, ed è un errore preciso. Non sprecherei le giornate mie e dei miei collaboratori di Affari tuoi dicendo cose magari giuste ma nel modo sbagliato (ci furono dei fuorionda diffusi da Striscia, nei quali il conduttore si lasciava andare a scatti d’ira durante una riunione ristretta di lavoro, ndr). Quando ho ceduto al nervosismo sono stato visto come una persona cattiva, ma io non sono così. Eppure ancora oggi non riesco a perdonarmi. Oggi certamente preferirei fare una trasmissione meno perfetta e curata ma senza avvelenare le giornate mie e di quelli che lavorano con me».
E in amore? È cambiato negli anni?
«Ascolto di più. Dedico più tempo alla persona che amo. Tolgo qualcosa al lavoro, cosa che prima mi riusciva difficilissimo. Chiedo scusa a chi non è stato amato abbastanza da me, ma oggi so che Gigi aveva ragione: non operiamo a cuore aperto, facciamo solo televisione».