la Repubblica, 19 novembre 2021
Intervista a Douglas Souza
«Non voglio essere un esempio, ma uno specchio, lo specchio che io non ho avuto. Vorrei che le persone che si vergognano o si sentono sole possano dire: se ce l’ha fatta lui, posso farcela anche io. Per questo ho detto pubblicamente che ero gay». Douglas Souza ha vinto l’oro del volley alle Olimpiadi nel 2016, un campionato brasiliano, un campionato sudamericano per club, è stato il miglior schiacciatore al mondiale del 2018 e in questa stagione è venuto in Italia, a Vibo Valentia, nella Callipo.
Ha 26 anni e ai Giochi di Tokyo, nonostante il quarto posto del Brasile, è diventato molto popolare su Instagram. Grazie a buffi video sulla vita nel villaggio e in particolare grazie a un balletto simil samba sui famosi letti di cartone degli atleti. I suoi follower sono diventati 3 milioni, ha anche un canale YouTube e usa i social per le cose che in modo diverso, ma tutte insieme, sono la sua vita: la pallavolo, i videogame, la musica, la comunità Lgbt.
Perché ha cominciato a giocare a pallavolo?
«A undici anni l’ho scelta come mio sport, me l’aveva consigliata il dottore, avevo problemi di bronchite, prima ne avevo praticati anche altri.
Ma sentivo che quella era la strada: sognavo di diventare il più forte e di vincere un’Olimpiade. Come Dante, il mio idolo».
Ha detto alla sua famiglia che era gay e cosa è successo?
«Per me è stato molto naturale, io lo sapevo fin da piccolo. A 18 anni ho avuto il primo vero contratto con una squadra e sono arrivato alla mia indipendenza economica. Allora ho portato il mio ragazzo dai miei e loro, ovviamente, avevano già capito tutto».
Ci sono stati momenti difficili per lei? Ha patito il bullismo o attacchi personali?
«Ero molto alto e un giocatore già forte fin da ragazzino: questo forse ha evitato che qualcuno se la prendesse con me. È sempre stato tutto abbastanza tranquillo. Poi è evidente che devi stare sulla Luna per non vedere le occhiate e non sentire alcune battute, ma non ho vissuto episodi drammatici, quelli che invece purtroppo molti giovani sono costretti a subire».
Quando ha deciso di parlarne pubblicamente?
«Durante le Olimpiadi di Rio, con un video in cui ne parlavo con mia madre. L’ho fatto perché tutti mi avevano sempre detto di restare nascosto, che questo avrebbe penalizzato la mia carriera e invece volevo mostrare che non era così. Non devi aver paura di affrontare le cose: la vita è una sola e il coraggio ti può venire anche da questo».
Perché è raro trovare atleti che fanno coming out negli sport di squadra maschile?
«Una squadra è fatta da venti giocatori, lo staff, gli allenatori, ci sono tante teste diverse e forse si è molto più preoccupati dei tanti giudizi che non si possono controllare. Io penso che ognuno deve fare i passi che sente: agli eterosessuali non si chiede di uscire allo scoperto, quindi non è necessario che lo facciano le persone Lgbt. Bisogna capire qual è il momento giusto, per me, ripeto, è stato tutto naturale, l’ho fatto persino con leggerezza: sono fidanzato, il mio ragazzo è in Italia con me, ed è logico postare le nostre foto su Instagram.
Ma le persone devono essere libere anche di aspettare».
Due frasi dai suoi video: “l’omofobia non è un’opinione, è un crimine”, “l’amore non è una malattia, il pregiudizio sì”.
«Ho la possibilità di usare i social per arrivare a tante persone. Per la comunità Lgbt, perché io sono la prova che un atleta gay può arrivare ad altissimo livello. Io, un ragazzino qualunque, nato nell’interno dello stato di San Paolo che a 21 anni ha vissuto il sogno di un oro olimpico, che gioca in nazionale e nei campionati più belli».