La Stampa, 19 novembre 2021
A un anno dalla morte di Maradona
Nel club dove è iniziato tutto, hanno preferito, ad un anno di distanza, ricordare la vita e non la morte di Diego Armando Maradona. Argentinos Juniors è stata la casa del Pelusa. Le due ore in autobus da Villa Fiorito fino al quartiere della Paternal erano piene di speranza all’andata e gonfie di gioia al ritorno. Le Cebollitas del mitico Francis Cornejo da queste parti nessuno le ha scordate. Javier Romisier di professione fa il medico di famiglia e da un anno e mezzo ha corso non poco nelle case della gente del quartiere alle prese con il Covid. Ogni minuto libero lo dedica all’Argentinos, di cui è lo storico ufficiale. Percorrere con lui il piccolo museo interno è come scorrere la prima meravigliosa parte della storia maradoniana. «Non direi che Diego è diventato calciatore da noi, perché lui è nato già con questo dono. Non gli si doveva insegnare niente, a nove anni la sua visione del gioco era oltre ogni limite. Francis ha avuto la capacità, questo sì, di inserirlo in una squadra che ha vinto di tutto».
Lo stadio “Diego Armando Maradona”, oggi, è una galleria a cielo aperto, gli Uffizi della vita del Diez. Le pareti esterne sono piene di faccioni del Diego, un piccolo ripostiglio è diventato il santuario dove ogni giorno vengono in molti a lasciare un ricordo, una maglietta, anche a pregare per lui. Lo hanno trasformato in luogo del culto profano tre giorni dopo la sua morte, quasi per caso. «C’erano tantissime cose appoggiate ai portoni di ingresso. Era previsto un forte temporale, abbiamo messo tutto in questa stanza che dava sulla strada. In due giorni, grazie a tre muratori volontari del quartiere, abbiamo costruito la “chiesa"». Tutta la Paternal, del resto respira Diego. I vicini hanno dipinto le pareti delle loro case, appena finito il lockdown, che a Buenos Aires è durato quasi sei mesi, sono arrivati i tour organizzati, all’inizio con turisti argentini, adesso con i primi stranieri. La Società ha deciso di non organizzare nulla per l’anniversario della morte, il 25 novembre, ma si prevede che ci sarà moltissima gente. Il 30 ottobre, che sarebbe stato il compleanno numero 61, è stata organizzata una partita tra vecchie glorie del club e gli ex campioni del 1986. Subito dopo è stata proiettata la prima puntata della serie maradoniana di Amazon, pensata e prodotta quando Diego era ancora vivo. Sono quattro gli attori che lo interpretano, dagli esordi fino alla quasi morte di Punta del Este, il primo grande pericolo scampato. Juan Palomino, un passato da star delle telenovelas argentine, interpreta il Diego in fin di vita in Uruguay. Grasso, in balia della droga, perso disperatamente nel labirinto delle sue contraddizioni. Ha dovuto prendere 20 chili per avvicinarsi al personaggio, oggi conserva il look con barba e pizzetto grigio dei mondiali in Sudafrica, che farà parte della seconda stagione. La somiglianza è stupefacente, Palomino arriva all’intervista con occhiali scuri e cappellino: non si sa mai che qualcuno pensi al miracolo di una reincarnazione e svenga per strada. «Diego è stato enorme in quello che ha saputo conquistare, ma ci ha mostrato i suoi lati più oscuri. Era gloria, ma anche rovinose cadute. La cosa positiva di questo lavoro è che lo abbiamo mostrato nel contesto storico in cui ha vissuto e di cui lui, in fondo è stato uno dei protagonisti. Il gol agli inglesi dopo la guerra alle Malvinas, il peronismo con tutte le sue contraddizioni, gli scontri con il potere del calcio, ad iniziare dalla Fifa. Era un ribelle per antonomasia ed un controsenso in essere; l’uomo più famoso del mondo, ma che per molto tempo è stato tremendamente solo».
Maradona come metafora dell’Argentina o forse il contrario, fatto sta che è impossibile non parlare di lui, soprattutto adesso che non c’è più. «In America – spiega Ezequiel Fernandez Moores – si parla ancora di Mohammed Ali perché è un modo per parlare dei grandi problemi irrisolti del Paese». Gli anniversari sono le occasioni ideali per nuovi libri, biografie, film. Con Diego tutto è ancora più forte. «La sua morte ci ha sconvolti ma non sorpresi. Che Maradona si stesse autodistruggendo da almeno venti anni lo sapevano tutti, oggi quel vuoto è riempito da nuove suggestioni che sembrano infinite, perché la sua vita è piena di angoli ancora da esplorare». Le strade di Buenos Aires in primavera sono fantastiche, alla bellezza dei jacaranda in fiore oggi si aggiungono ovunque i ritratti maradoniani. E come sempre, tutto è trasversale; dai quartieri ricchi della zona Nord, che si affacciano sulla parte più bella del Rio della Plata, alle villas miserias nel putrido Riachuelo, un gigantesco altare votivo a lui dedicato. Diego sorridente o arrabbiato, con la maglia del Boca o del Napoli, con la coppa alzata al cielo dell’Atzeca o il gessato da tecnico della seleccion. Tanti 10, tanti D10S, tanti 1960 che si proiettano all’infinito, là dove gli idoli non muoiono mai. Victor Hugo Morales ricorda come fosse ieri il «barrilete cosmico» e il gol di mano agli inglesi; non ha mai smesso di ringraziare Diego per quello che è stato l’apice della sua carriera. Con Maradona ha condotto un programma per l’emittente chavista Telesur, pochissimo budget ma invitati di lusso. «Ai calciatori, anche quelli più celebri, bastava sapere che c’era lui e venivano di corsa in studio. Era molto facile lavorarci insieme. A Diego si poteva chiedere di tutto e lui amava disquisire su qualsiasi cosa, i giornalisti ne approfittavano perché sapevano che la polemica era servita. Io, invece, lo facevo parlare solo di calcio, cosciente che non c’era niente al mondo che gli piacesse quanto il pallone». Morales, come molti a Buenos Aires, sente che un pezzo di lui se ne è andato. «Ho 73 anni e ho sempre avuto una salute di ferro, mai un problema serio. Negli ultimi mesi mi hanno messo uno stent, sento peggio di prima, mi dà fastidio la luce. Sicuramente è l’età, ma a volte credo che è perché lui non c’è più».
Non è l’unico a pensare che le cose, forse, non succedono per caso. Maradona è morto nell’anno horribilis della pandemia: è dopo la sua scomparsa che l’Argentina è riuscita a vincere di nuovo qualcosa. La Coppa America conquistata a luglio nel Maracana contro il Brasile non solo ha messo fine ad un digiuno di titoli di 27 anni, ma ha anche segnato il primo trionfo biancoceleste dell’erede designato, Lionel Messi. L’espressione che si usa in Argentina è togliersi la “mochila”, uno zaino pesante come piombo per uno dei Paesi più calciofili al mondo. La giornalista Veronica Brunati ha accompagnato Messi fin dalla Masia ed è stata testimone di diversi incontri fra i due. «Come tutte le relazioni maradoniane – spiega- è una storia non lineare. All’inizio c’è stato un grande affetto, Diego ha capito fin da subito il valore di Lionel e lo ha appoggiato moltissimo, quasi fosse un padre. Poi, quando Messi ha raggiunto l’apice, qualcosa è cambiato; forse un po’ di gelosia, qualche commento fuori luogo, ma non c’è mai stata una rottura. Noi tutti, Lionel compreso, sappiamo che Diego è irraggiungibile, soprattutto per gli argentini. Rappresenta tutto quello che siamo, il genio e l’irriverenza, il senso di rivincita, ma anche la superbia, che tanto ci allontana dai nostri cugini sudamericani. Lionel, invece, è sempre stato visto come il prodotto perfetto di un grande club europeo. Un grande campione argentino, certo, ma molto distante dall’immaginario collettivo con cui ci identifichiamo». Sorprenderà, forse, ma nei mille club di barrios argentini, dove il calcio è un momento centrale nella vita di quartiere, il fascino di Maradona non è mai tramontato.
I ragazzi hanno vestito la maglia di Batistuta, Riquelme o di Tevez, oggi vestono quella di Messi, Cristiano Ronaldo o Dybala, ma quando si chiede chi è il “más grande” la risposta è una sola. Al «Defensores de Olivos», dove i più piccoli hanno sei anni, il credo maradoniano è rimasto intatto da tre generazioni. «Noi – spiega il coordinatore Leo Chichou – ci svegliavamo alle sette la domenica per vedere il Napoli, i nostri figli o i nipoti lo rivedono su YouTube. Una delle poche certezze che abbiamo qui in Argentina è che non ci sarà mai uno migliore di lui». —