il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2021
Alcol e letteratura, cento e più sbronze d’autore
In letteratura, la sobrietà è sospetta: le più raffinate penne della storia sono spesso “alla vodka”, tra scrittori diversamente sbronzi, alcolisti cronici e autrici alticce. “Prima tu prendi un drink, poi il drink ne prende un altro e infine il drink prende te”: Francis Scott Fitzgerald ha più di un problema con l’etanolo, ma almeno è onesto. Ama sorseggiare gin tutto il giorno, mentre la moglie Zelda si fa di Vodka Lemon. E per riprendersi dai postumi della sbornia, lui si trinca tre whisky forti; lei si fa una nuotata. E ricomincia con la Vodka Lemon.
La coppia è una dei sei – e più – personaggi in cerca di alcol della inebriante antologia Bere come un vero scrittore: cento ricette per ricreare i drink che hanno ispirato i giganti della letteratura, in libreria da oggi con il Saggiatore. Poeti e romanzieri amano soprattutto i beveroni dai nomi bizzarri: il Manhattan, che invero è nato a San Francisco; il Gin Twist; lo Sherry Cobbler; il While Rome Burns; l’Hot Toddy, ma alla francese, come chiede Gustave Flaubert; il Cocktail di Tarzan e il Cock-Tail al whisky di Mark Twain, il primo a bere drink “così come li conosciamo oggi”. Se ne prepara tre al giorno, anche – dice lui – per dare vigore alla vita amorosa: uno prima di colazione, uno prima di cena e uno prima di coricarsi.
William Shakespeare va pazzo per il Metheglin, una specie di vino di miele fermentato e invecchiato per anni, a cui attribuisce proprietà medicamentose. Anche il suo collega William Butler Yeats dedica in versi una Canzone al vino: “Sollevo il bicchiere alle labbra,/ ti guardo e sospiro”. Gli autori di prosa sono più prosaici e banali: Irish coffee pesante per James Joyce e un Gimlet a Philip Marlowe e al suo creatore Raymond Chandler, in barba al Vesper Martini dei rivali James Bond e Ian Fleming. Sul classico si buttano poi J. D. Salinger (Scotch e Soda), Jack Kerouac (Margarita) ed Elizabeth Bishop (Caipirinha).
William Seabrook, dopo l’esperienza in manicomio, crea l’Asylum cocktail, mentre Edgar Allan Poe predilige gli intrugli proteici all’uovo (Eggnog), Gertrude Stein si butta sulle vitamine (Macedonia allo champagne) e Somerset Maugham ama gli aromi e sorseggia Zubrówka, una vodka polacca con erba di bisonte. Tra i bevitori più celebri ci sono Ernest Hemingway – “Il Mojito alla Bodeguita e il Daiquiri doppio al Floridita”, all’Avana – e Charles Bukowski, che va di bourbon e birra. Tra i drink, il più gettonato è il Death in the Afternoon (morte nel pomeriggio, ndr), a base di assenzio e champagne. Il momento giusto per degustarlo è “l’ora verde”, intorno a las cinco de la tarde, minutaggio malinconico per eccellenza. “Che differenza c’è tra un bicchiere di assenzio e un tramonto?”, si chiede retoricamente Oscar Wilde, e non è l’unico a smaniare per la “fata verde”, alias assenzio: suoi devoti sono pure Alfred Jarry, Charles Baudelaire, che l’accompagna a laudano e oppio, e Arthur Rimbaud, che intanto ci fuma sopra l’hashish.
Molti artisti si servono di sostanze stupefacenti diluite in fondo al bicchiere: Dante Gabriel Rossetti si fa di cloralio e whisky, nel libro riproposto in versione light e legale con un estratto di cannabis non psicoattivo. Lo Stinger, a base di brandy e menta, è per Evelyn Waugh, che lo allunga col bromuro; nell’Horse’s Neck, Noël Coward mischia ginger e tre aspirine; Jacqueline Susann prende due bambole rosse (psicofarmaci) e un sorso di scotch; il “drinkettino” di Tennessee Williams prevede brandy e barbiturici; Hunter S. Thompson beve di tutto, tra una sniffata di cocaina e l’altra.
Le donne non si negano nulla: un Negus per Jane Austen; un Punch al latte per Virginia Woolf; almeno tre Vodka Martini per Sylvia Plath e Anne Sexton; vodka e whisky con succo all’albicocca per Simone de Beauvoir; champagne e Guinness per Donna Tartt; Gin Tonic per J. K. Rowling; un Whisky Sour per Dorothy Parker, “ma non più di due. Tre e sono sotto il tavolo. Quattro e sono sotto il padrone di casa”.
Sorvolando sui pochi astemi e/o bevitori morigerati – Percy Bysshe Shelley, George Orwell, Flannery O’Connor, Agatha Christie –, il ricettario si chiude con l’infallibile rimedio di Samuel Taylor Coleridge per riprendersi dalla sbronza: sei uova fritte e un bicchiere di laudano. Ci vuole fegato per diventare scrittori. E rimanerci, e rimanere in vita.