il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2021
Pietro Puzone: calcio, droga e alcol
Pietro Puzone arrivò, giovanissimo, dal “Congo” e divenne il fratello “scugnizzo” di Diego Armando Maradona nel Napoli del primo scudetto. “Ho avuto la fortuna di incontrare il più grande giocatore di tutti i tempi. Diventammo amici, intimi amici, a unirci erano le nostre origini”.
Povertà. Diego dalla bidonville di Villa Fiorito, il barrio argentino dove era nato. Pietro dal “Congo”, appunto. Come viene appellato ad Acerra il Rione Gescal, perché lontano dal centro e perché lì dal terremoto del 1980 vive “gente mischiata”. Solita periferia dall’edilizia sovietica, dove impera e prospera la “gente di strada”, cioè la camorra. Acerra è il paese di Pulcinella, a nord di Napoli. Puzone debuttò in Serie A nel 1982, a diciannove anni. Una sostituzione. Entrò in Napoli-Cesena. “Perdevamo due a zero. Porca puttana che bel debutto mi fa fare questo, pensai”. “Questo” era Rino Marchesi, all’epoca trainer degli azzurri. “Facemmo due a due e il tre a due me lo mangiai io”. Quel Napoli-Cesena fu consegnato alla storia da una scena capolavoro di Scusate il ritardo, in cui Massimo Troisi (Vincenzo) è a letto con Giuliana De Sio (Anna). I due hanno appena fatto l’amore, Anna parla del loro rapporto di coppia e Vincenzo accende la radio per la partita e scopre che il Napoli perde due a zero in casa.
Maradona, poi. Diego atterrò a Napoli osannato come il messia della pelota. Era il luglio del 1984. Pietro c’era. Tornato dopo due esperienze nelle serie minori, Cavese e Akragas. “La mia testa toglila di mezzo, ma dal collo ai piedi io ero il secondo Maradona a Napoli”. Ala destra. Un talento scintillante. “Potevo fare molto di più”. Puzone non giocò mai nel campionato del primo scudetto, quello del 1986-1987. Epperò era l’ombra di Diego. Inseparabili. “Diego doveva andare a Roma per una visita medica. Andammo al Gilda, il locale dei vip, e prendemmo un privé. Fu la prima volta che tirai cocaina. Rientrammo il giorno dopo in albergo”. Un’altra notte, invece, “Diego bevve 40 succhi di frutta e 40 Cointreau”. Saltò l’allenamento della mattina per “indigestione gastrica”. Fu così che Ottavio Bianchi, il solitario bergamasco che allenava quel Napoli, chiamò Puzone e gli chiese di aiutarlo con Maradona, per frenare le notti del messia affamato di vita. Pietro rispose: “Maradona non lo ferma neanche Reagan”.
Pietro Puzone ha raccontato la sua parabola a Lorenzo Giroffi in Senza Diego, doc intenso e drammatico di cinquanta minuti. Fino all’estate del 2020, Puzone era un clochard, su una panchina di Acerra. Tavernello dalle sei di mattina. E tanto crack, da 15 euro alla bottiglietta, da consumarci l’intero reddito di cittadinanza. “La solitudine è la morte totale, sono tanti i motivi per cui ho bevuto questo vino di merda. Mia figlia il giorno del matrimonio è andata all’altare con lo zio, non la vedo da 18 anni”. Nelle sue scorribande di strada, Diego soleva dire, arrivato in un posto: “Mi manda Puzone”. Pietro: un fratello carcerato e un cognato capoclan di Raffaele Cutolo. “Maradona è uno scugnizzo come me”. Al Rione Gescal, il “Congo”, dicono di loro due: “Hanno la stessa testa, vengono dagli stessi rioni malfamati, sono compari, la droga l’hanno conosciuta assieme”. Nel 1989 Maradona voleva andare via, a Marsiglia. Ferlaino glielo promise in caso di vittoria della Coppa Uefa. E così “Peppe Misso (famoso boss della camorra, ndr) mise una bomba sotto la casa di Ferlaino”. Diego non fu più venduto. Rimase a Napoli.
Nel 1985, El Pibe de Oro giocò persino una partita memorabile nello stadio comunale di Acerra. Beneficenza. Trenta milioni di lire d’incasso per un bimbo da operare in Svizzera. “Dovevo andare a Roma, alla Lazio, ma Maradona non volle, aveva trovato un fratello”. A casa Puzone, Diego andò pure a mangiare pasta e fagioli insieme con Heather Parisi. “Maradona è stato bello e caro, ma mi ha rovinato la vita. Maradona è Maradona, io sono Puzone, non sono lui che è in grado di coprire tutti gli sbagli che ha fatto”. Pietro ha rischiato di morire due volte. L’ultima un anno fa. In clinica, a letto, gli chiedono: “Qual è il tuo primo ricordo?”. “Maradona”. “Abbiamo fatto delle cazzate insieme”.
Oggi Pietro Puzone è di nuovo in piedi. “Pulito”. “Io ho giocato in Serie A e stavo morendo per queste cazzate”. Nel “Congo” è rimasto comunque un idolo. Una leggenda. Per i ragazzini che giocano a pallone è uno che ce l’ha fatta, “uno che è arrivato nel Napoli”.
Pietro è risorto mentre Maradona si preparava a morire, al piano terra di una villetta anonima di Tigre, una pizza come ultima cena, il 25 novembre dell’anno scorso. Nello splendore degli anni Ottanta, uno era la luce, Diego, l’altro l’ombra, Pietro. Trent’anni e passa dopo i ruoli si sono come rovesciati, nella vita. “La mia sfortuna era che avevo il soldo addosso”. La sua carriera di calciatore finì presto, a 27 anni. Pietro che dal collo ai piedi era come Maradona. E coi piedi, entrambi, hanno preso la vita a calci. Come fosse un pallone.