Linkiesta, 19 novembre 2021
Lo stigma dell’essere grassa
Come tutti i thriller, Sarah – La ragazza di Avetrana comincia spacciando un posto tremendo per un paradiso. La prima intervistata dice che quella è una terra bellissima per merito della luce, e lo spettatore non può non pensare che tutti i posti invivibili, da Los Angeles a Roma, si vantano della luce. Nessuno che viva a New York ti parla mai della luce (non di quella naturale, al massimo delle mille luci della città), ma – se tutto intorno è campi o autostrada o immondizia – allora la luce è tutto quel che hai.
Era il 2010. Era un’altra vita. Il documentario sull’assassinio di Sarah Scazzi (sono quattro puntate, su Sky da martedì prossimo) non si sarebbe mai intitolato così. Esistevano i social, ma sui social passavamo pochissimo tempo, e quel pochissimo tempo non lo dedicavamo alle militanze fesse. Nessuno aveva ancora tirato fuori la prescrittività del mettere la vittima al centro della scena: sapevamo che quelli interessanti sono gli assassini, che le vittime perlopiù passano di lì per caso. Sapevamo come si chiamava Raskolnikov, mica la vecchia.
Avetrana era letteratura, e non lo era solo perché ormai tutto è letteratura, tranne la letteratura. Non lo era solo per le mie amiche, gente che parla della Sciarelli come fosse Truman Capote e di Franca Leosini come fosse Emmanuel Carrère. Avetrana era letteratura perché i personaggi erano perfetti, a rivederli non dici neanche per un attimo «come ho fatto a perderci tanto tempo», anzi: le quattro puntate su Avetrana, in un’epoca in cui ogni brodo è allungato e tutto vorresti durasse meno, sono quattro puntate dopo le quali ne vorresti altre quaranta (credo di averlo già detto: è lo stesso effetto che mi ha fatto l’American Crime Story sulla vicenda Lewinsky; è un effetto che non mi fa quasi più niente, nell’eccesso d’offerta corrente).
È perfetto il fratello di Sarah, che allora pareva fosse aspirante tronista (ma ha fatto causa – e vinto – a chi scrisse che era diventato cliente di Lele Mora, agente di Aspiranti Qualsiasicosa). È perfetta Valentina, l’unica Misseri non accusata di niente, che sbuffa e scalpita e difende la sorella e nega che Sabrina fosse gelosa, e dice che la madre di Sarah preferiva la figlia uscisse con la cugina che coi compagni di scuola, con cui magari «intraprendeva l’uso delle droghe».
È perfetta la madre della vittima, coi capelli rosso menopausa e il parlare dei testimoni di Geova dai quali la figlia si era allontanata. È perfetta la madre cupa di Sabrina, che nonostante il marito reclamasse per sé il ruolo dell’assassino è stata condannata assieme alla figlia.
È perfetto quello che tutt’Italia chiamava «zio Michele», scognomandolo come si fa coi veri divi, lui e le sue mille versioni contraddittorie, lui e il suo italiano pericolante, lui e il suo essere troppo verghiano per essere finto. A un certo punto nel documentario qualcuno descrive Cosima Misseri – madre di Sabrina, moglie di Michele – come una che nella vita aveva avuto poche soddisfazioni, e il dettaglio che scelgono di utilizzare è «non è mai andata a teatro», che è al tempo stesso esilarante e straziante. Se solo avesse abitato nei pressi d’un teatro di prosa cui abbonarsi, se solo la visione d’un qualche Ronconi avesse potuto redimerla.
Non so se nel 2010 si parlasse, rispetto a certe immagini buffe, di «meme»; di sicuro non era una parola del nostro gergo quotidiano. Eppure Avetrana è il primo (forse l’unico) meme che mi abbia riguardata. C’era una foto di Sarah e Sabrina. Sarah era la ragazza morta, la biondina gracile, timida, più piccola delle cugine, forse amata da un oggetto del desiderio conteso (Ivano, uno guardando il quale l’Italia metropolitana diceva il rosario ringraziando di non vivere in realtà rurali in cui ti toccava litigarti un così inutile pezzo di carne). Sabrina era la cugina che forse l’ha uccisa (attualmente divide con la madre la cella in cui scontano l’ergastolo, e già solo l’idea di quelle due a vita nella stessa cella potrebbe fare per il romanzo italiano ciò che neanche Gadda è riuscito a fare finora). Sabrina era mora, era volitiva, soprattutto era grassa.
Essere grassa è un carattere; lo è agli occhi del pubblico, che è l’unica cosa che conta (checché ne dicano quelle che cianciano d’essere dimagrite «per me stessa»). Sabrina era grassa quindi era invidiosa della cugina; Sabrina era grassa quindi Ivano non poteva volere lei invece della biondina esile; Sabrina era grassa quindi era un’assassina.
Julie Burchill, una giornalista inglese che è stata grassa per molta parte della sua vita, racconta che, quando suo figlio si è suicidato, per il dolore è dimagrita moltissimo. Tutti le dicevano sollevati: ma come stai bene. Puoi dimagrire per un lutto, per una malattia terminale, per un esaurimento nervoso: comunque la platea la considererà una buona notizia.
La platea siamo noi, nessuno si senta escluso: quando la mettono in carcere, Sabrina Misseri dimagrisce moltissimo. Questo nel documentario non c’è, ma c’è nelle moltissime mail in cui si parla di Avetrana custodite nella mia casella di posta: la me men che quarantenne considerava che un ergastolo non fosse poi malaccio, se in cambio ne ricavavi una 42. (Ho amiche che la pensano ancora così. Forse tutto sommato anch’io la penso ancora così, in caso di priorità estetica: se tieni moltissimo a essere apprezzata da chi ti guarda, essere magra è metà del lavoro).
Insomma, il meme (mica ve ne sarete dimenticati dopo meno d’una decina di paragrafi di divagazioni). C’era questa foto con Sabrina e Sarah, e un amico le affiancò una foto fatta durante una tavolata, davanti a dei fritti (i veri colpevoli). C’ero io – Sabrina l’assassina – e una ragazza tedesca che frequentavamo in quegli anni. La biondina. Quella destinata a soccombere. Eravamo identiche alle ragazze della cronaca nera. Qualcuno si raccomandò di non farla vedere alla tedesca: essere la vittima non era ancora un complimento. La foto era stata scattata in un ristorante di Trastevere: uno di quei ristoranti romani in cui si mangia male, ma c’è una luce bellissima.