il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2021
Formigoni monta in cattedra e fa la vittima
Alle ore 22, Roberto Formigoni comincia a mandare segnali inequivocabili. Un occhio all’orologio, una mano sul manico della 24 ore in pelle, postura del corpo già predisposta allo scatto verso le scale. Come a dire: signori, s’è fatta una certa. E mica per cattiveria: alle 23 il Celeste deve tassativamente tagliare il traguardo del proprio uscio di casa, a Milano, causa fine del permesso dagli arresti domiciliari.
Misura cui è costretto da una condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi per corruzione. Nell’aula magna del Collegio Gallio di Como, dove martedì sera arriva per presentare il suo libro Una storia popolare, lo accolgono con calore. Solo fuori dall’istituto si ritrovano 5 Stelle, Rifondazione e associazioni per protestare: “È scandaloso che il Collegio Gallio, che come tutte le scuole private usufruisce di contributi, ospiti un personaggio come Formigoni condannato per corruzione”. La serata è un lungo rito di revisionismo collettivo. Formigoni, completo blu e cravatta color crema, non conosce autocritica: “Con la nostra riforma della sanità abbiamo permesso anche ai poveracci di curarsi negli ospedali migliori d’Italia”. Al prezzo di un’apertura ai privati che più in là avrebbe avuto parecchi effetti collaterali, almeno secondo i giudici. Ma non importa.
Il Celeste parla ancora di sé in terza persona, soprattutto quando sta per farsi un complimento: “Con Formigoni, gli imprenditori lombardi hanno portato le loro eccellenze in tutto il mondo”. Al riguardo c’è pure un aneddoto biblico: “Nel 2002 riuscimmo a vendere il riso ai cinesi, che è un po’ come vendere i ghiaccioli al Polo Nord”. Merito, dice l’ex presidente di Regione Lombardia, di “un grande pranzo con 100 ristoratori di Pechino a cui offrimmo il risotto alla milanese”: “Il giorno dopo – giura lui – decine di imprenditori firmarono accordi per esportare il riso prodotto in Lombardia”.
Ma quel che sta più a cuore a Formigoni è la promozione del libro, ché sono tempi duri: “Non contenti di avermi condannato, mi hanno portato via tutto, mi hanno sequestrato tutto quello che avevo messo da parte in cinquant’anni di lavoro e la piccola eredità avuta da mio nonno”. E qui i toni del Celeste si fanno drammatici: “A 73 anni ho dovuto inventarmi qualcosa per poter vivere, menomale che il mio amico Feltri mi fa scrivere su Libero. Non bastano neanche i diritti d’autore del libro”. Tra le voci in entrata nessun accenno al vitalizio, chissà se per una banale dimenticanza o per semplice pudore.
Il pubblico infreddolito – l’enorme stanzone è privo di riscaldamento – non molla il cappotto e assiste alla lectio magistralis di un uomo che si è convinto di essere un perseguitato. Da dietro la cattedra, di fronte a una manciata di post-democristiani locali e a una cinquantina di fedeli, Formigoni racconta che Tangentopoli, nel 1992, servì quasi solo per tentare di mandare in galera lui: “C’era un pm che prometteva la libertà a tutti gli arrestati a patto che ammettesse di aver dato soldi a Craxi o a Formigoni”. E anche qui, la terza persona suona un po’ come un complimento. Poi, quando si arriva ai più recenti guai con la giustizia, Formigoni irrigidisce la mascella e alza la voce: “Pensavano di distruggermi, è stato un processo politico, un’ingiustizia. Ma non sono crollato e ho uno spirito di ribellione formidabile”.
Non al punto, però, di violare il permesso concesso dal giudice di sorveglianza: alle 23 tutti a casa, con buon anticipo sul più noto coprifuoco di Cenerentola. E allora il Celeste si agita, saluta e scende le scale di corsa, salvo accorgersi che manca qualcosa: “Ma dov’è il mio autista?”. Trattasi di Rodolfo Casadei, il giornalista co-autore del libro, attardatosi in aula magna. Sono attimi di paura, basta un ingorgo in tangenziale per mandare all’aria anni di buona condotta. Ma poi eccolo, Casadei, finalmente. Formigoni può sorridere. E con lui il suo braccialetto elettronico.