il Giornale, 18 novembre 2021
Sulla nuova edizione dell’«Ulisse di Joyce
«E del resto, provare a intendere Joyce, senza possedere un po’ di gusto per l’invenzione verbale giocoseriosa... Chissà se Joyce si sarebbe divertito, provando a Dublino delle palpitazioni onomastiche tipo Proust?» scrisse il sublime Alberto Arbasino in Fratelli d’Italia. In effetti o si è joyciani o si è proustiani, perfino tra i letterati che sono pronti a apparecchiare tutto sulla stessa tavola, parlando di letteratura come fosse gastronomia.
Ne stavo parlando proprio a cena con il neuroscienziato Giorgio Vallortigara e la critichessa poetessa sexy sanguinetiana Gilda Policastro, davanti alla nuova edizione critica dell’Ulisse di Joyce pubblicata da Bompiani (tradotta da Enrico Terrinoni), e ho capito quanti danni avesse fatto il fraintendimento di Proust e di Joyce, che tra l’altro insieme a Kafka e Musil fondano quello che una volta si chiamava «modernismo», poi è arrivato il «postmoderno», e poi il niente, i critici si sono messi a fare a gara per giocare a fare loro gli scrittori (da cui un dibattito sull’Espresso a cui ha partecipato anche il sottoscritto, scaturito da Roberto Cotroneo, che sostiene non ci siano più gli scrittori di una volta, per questo si è messo a scrivere lui, come lo Strega lo ha preso Emanuele Trevi).
Così per lo scienziato (coltissimo, in realtà) contano le storie a prescindere dalla lingua (fraintendendo Proust), per la critichessa poetessa sexy la forma (fraintendendo Joyce). Quella forma che presa così com’è porta al formalismo (e al Gruppo 63, di cui è rimasto appunto solo Arbasino, perché ha scritto opere, non bricolage fuori tempo massimo, in fondo c’erano già stati i futuristi), così come le storie portano all’assenza di differenze qualitative (per cui l’una non legge romanzi di genere, l’altro non distingue un romanzo di genere dalla letteratura, che non deve necessariamente dire qualcosa di nuovo).
Per farvela breve: tra un bicchiere di champagne e un’ostrica (adoro le ostriche per parlare di letteratura, ti sembra di parlare di qualcosa), non sono d’accordo né con i due succitati commensali (ma l’uno ha l’alibi di essere uno scienziato, e ne sa comunque più di tutti i letterati che ho conosciuto), né con il pur bravissimo Enrico Terrinoni, che introduce la nuova edizione Bompiani, quando parlando dell’Ulisse dice che «le grandi opere aperte sfuggenti, come quelle di Beckett e Joyce, puntano tutto, non sul nulla in quanto assenza di senso, ma sul nulla in quanto coltre oscura dietro cui si cela qualcosa di diverso per ogni lettore; ed è in questo vuotoniente-nulla che risiede per Joyce il fine ultimo della parola (e sospetto anche per Beckett)».
Io sospetto per Beckett no, e neppure per Joyce. Anche perché Beckett prende dall’Ulisse proprio quel vuotoniente-nulla polisemantico (che fa dell’Ulisse un capolavoro, ma brucia i ponti ai suoi epigoni delle neoavanguardie, i quali tra l’altro lo coniugheranno col marxismo, a quel punto tanto valeva tenersi Sartre), ma si laurea su Proust, e in qualche modo li fonde in un’idea della letteratura che arriverà al silenzio. Un silenzio detto, tragico, ma non un’opera aperta: il silenzio di Beckett è il nonsenso della parola fatta esplodere da Joyce, ma anche il senso della tragedia umana sviscerata da Proust.
Invece ha ragione Terrinoni, a mio modesto avviso (modesto mica tanto, Terrinoni non me ne voglia, come dice Doctor House «sono un fottutissimo bastardo»), nel vedere nell’Ulisse «un libro organico, nel senso biologico del termine», d’altra parte lo stesso Joyce ha fornito degli «schemi scheletro», e l’intera sua opera è un corpo parlante. Non per altro sia l’Ulisse che la Recherche nascono insieme alle grandi rivoluzioni scientifiche (fisiche e biologiche), ma se appunto Joyce va in direzione dell’opera aperta (arrivando al Finnegans Wake), Proust la chiude usando il romanzo per narrare la fine di ogni illusione, da cui appunto il silenzio di Beckett, il non io.
Detta altrimenti: il capolavoro di Joyce si chiude con Joyce (non lascia epigoni né gruppi d’avanguardia), quello di Proust sì, ma in senso epistemologico: aveva letto sicuramente Darwin (la Recherche è intrisa di darwinismo) e probabilmente Proust sarebbe stato ancora più devastante con le conoscenze scientifiche attuali (l’universo, quando è morto Proust, non si stava ancora disintegrando, o meglio non si sapeva ancora, ma in fondo non sarebbe cambiato molto). Per cui: o la letteratura va avanti proustianamente, cioè epistemologicamente (e per farlo basta pure il Dan Brown di Origin, in cui c’è più di ogni autore da Nobel), o è intrattenimento narrativo, ma di certo non più la parola fine a se stessa (è per questo che sono finiti i poeti), né opera aperta (dopo Joyce non è più possibile, l’ha sfondata), né forma senza contenuto, al massimo contenuto con la forma che può darsi il talento di chi scrive (ma meglio se entrambi consustanziali, per essere letteratura, altrimenti mezzo secolo di critica, da Genette a Barthes a Eco, è esistito invano).
A proposito, per finire con una cena (visto che la cena di cui vi ho parlato con lo scienziato e la poetessa è finita da un pezzo): Proust e Joyce si incontrarono a cena a Parigi il 18 maggio del 1922 e Joyce chiese a Proust: «L’hai letto l’Ulisse?», Proust rispose «Non ho avuto tempo». Non è che fosse snob come dicono, stava finendo di scrivere la Recherche, e sarebbe morto il 18 novembre successivo, subito dopo aver messo la parola fine. Ma noi non abbiamo più l’alibi di Marcel, e l’Ulisse va letto, o meglio ancora riletto in questa nuova edizione. Mi scuso con lo scienziato e la poetessa e Terrinoni per averli tirati in mezzo, ma come dice mia mamma, che è toscana, non so tenermi un cecio in bocca.