Avvenire, 18 novembre 2021
Un film sul culto di Sant’Efisio
Tra le definizioni più scivolose e inadeguate della lingua italiana nel nostro tempo c’è senza dubbio il termine “documentario”, quando esso si applica al cinema. Se l’etichetta aveva già nel passato poca aderenza all’oggetto che avrebbe dovuto identificare, oggi rischia addirittura di coprirne e nasconderne la vitalissima complessità.
Con “documentario” sono definiti ormai molti generi diversi di oggetti cinematografici, generi che sono nel pieno di una costante, rapida e brulicante trasformazione. Un esempio è il “film d’archivio”: una volta, formula che semplicemente indicava l’opera didattica o saggistica che si costruiva ricucendo in un montaggio puramente compilativo materiali preesistenti, coprendo, senza grandi margini d’errore, una ristretta varietà di forme possibili; oggi, insegna vaga e inadeguata sotto la quale è possibile trovare racconti cinematografici d’invenzione, esprimenti d’avanguardia, cinema di poesia.
Nel concorso internazionale del Festival dei Popoli di Firenze è stato selezionato Rondò final, un film collettivo di difficile definizione che descrive i riti popolari della festa religiosa di Sant’Efisio che da più di trecentosessant’anni si celebra in Sardegna con processioni e cortei tra Cagliari e Nora, da quando, nel 1652, il santo liberò la città dalla peste.
Nel 2018 un gruppo di filmmaker inizia a organizzare attività di laboratorio, di confronti e d’esplorazioni in diversi archivi – primo fra tutti la Cineteca Sarda – con l’idea di costruire uno spazio condiviso di ricerca sulle immagini in direzione di un’idea diversa di autorialità. Seguono riprese ex novo e diverse sessioni di montaggio, finché il film, in parte lavorando a distanza durante la segregazione pandemica, viene chiuso nella primavera del 2021.
Nei titoli di coda si legge: «Un film a staffetta, ideato, sognato, incominciato e coordinato da Gaetano Crivaro e Margherita Pisano»; e poi ancora «smontato, discusso, montato e rimontato dall’Assemblea di Montaggio composta da: Luca Carboni, Alberto Diana, Margherita Riva, Vittoria Soddu» oltre ai quattro succitati autori; e infine «accordata, ispirata e coordinata da Arturo Lavorato e Felice D’Agostino». Poche righe che riassumono la differenza al fondo di questo inconsueto, anarchico film di pensiero e di poesia che nasce e finisce tra le mani di due coppie diverse d’autori, due coppie di autori diversi: Crivaro e Pisano, compagni d’arte e di vita, sarda lei, calabrese lui, ricercatori e artefici di cinema viandante (tra i loro molti progetti, l’invenzione degli incontri-laboratoripalestre di “Cinema di seconda mano”, proprio sul fare cinema montando immagini altrui); D’Agostino e Lavorato, calabresi, meridiona-listi, tra i più rigorosi, colti e originali autori di cinema di questi anni, tra i pochi capaci di produrre una riflessione complessa e articolata sul mezzogiorno d’Italia, sul Sud come categoria geo-politica, sul meridione come periferia luogo topico della differenza e di farlo usando immagini nuove e giuste.
Rondò final è fatto dunque di una collezione di materiali disomogenei: le immagini d’archivio, in buona parte riferite ai riti della festa registrati lungo l’arco d’un secolo, di mano in mano, di sguardo in sguardo dalla pellicola al video elettronico, al formato digitale; le riprese della processione realizzate nel presente; due anonime voci, una femminile, l’altra maschile, una italiana, l’altra straniera, che leggono, per brevi tratti, i testi di Sergio Atzeni ( Rondò final contenuto in I sogni della città bianca) e di Frantz Fanon ( I dannati della terra).
Quel che al principio sembra un film etnografico e che passa subito all’apparenza di un documentario d’osservazione, inizia presto a girare quasi seguendo invisibili percorsi a spirale, lungo traiettorie d’estasi: l’occhio esce dal piano documentale delle immagini – nelle quali scorrono teorie di uomini a cavallo, processioni senza fine sovrapposte al cielo ingombro delle incombenti architetture inumane di grossi impianti industriali, gesti singolari e movimenti collettivi – per lanciarsi fuori dall’angusto riferimento storico, fuori dal mero studio antropologico, verso una trasfigurazione onirica e dunque poetica che finisce per incarnarsi nella forma limpida di un saggio. Il rito attraversa l’intimità, la coralità, l’epica e la politica, mentre la liturgia e la preghiera trascolorano nella propaganda e nella retorica e infine il sacro si specchia e si confonde col profano. Dentro una forma libera che contempera il rigore di un ordine chiuso e la forza caotica di un’apertura all’irrazionale, i materiali nuovi e i vecchi perdono tutti il legame forte con la propria origine, il vincolo all’istanza soggettiva che li ha prodotti, si trasferiscono sul tavolo di montaggio che è il laboratorio di una nuova istanza arbitraria ma antiindividualistica, e rinascono sotto la spinta del lavoro condiviso e anarchico di un gruppo di scultori d’immagini guidati da un’idea.