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 2021  novembre 18 Giovedì calendario

Intervista a Luca Zaia


Luca Zaia, alcuni suoi colleghi governatori paventano il lockdown per i no vax, lei che pensa?
«Che ha oggettivi limiti costituzionali. Dovremmo investire di più sul dialogo convincendo gli irriducibili a vaccinarsi. Comunque, ogni decisione la prenderemo assieme, fra governatori».
Parla di dialogo: il vaccino obbligatorio è tabù?
«Qualcuno può forse pensare che in questo Paese si possano accompagnare i cittadini coattamente a vaccinarsi?».
Di pandemia parla anche il suo libro che esce oggi per Marsilio, il titolo è «Ragioniamoci sopra» uguale al tormentone che le ha affibbiato Maurizio Crozza. Ragioniamo su cosa?
«Ognuno ha i suoi intercalari e io con Crozza mi sono accorto che “ragioniamoci sopra” è il mio. È un’italianizzazione del veneto “ragioneghe sora”. L’ho scelto un po’ per prendermi in giro, un po’ per marketing, e poi Crozza mi piace: fa satira informata. In pandemia, metteva prima il mio punto stampa e poi la parodia. Quelli sono stati mesi duri. Infatti, il sottotitolo è “dalla pandemia all’autonomia”, nasce da riflessioni partite allora sul Covid e sulle sue ricadute».
Siamo a metà fra autobiografia e manifesto politico: non è che si sta posizionando per il salto nazionale dopo il terzo mandato in Veneto?
«Nessun salto. È scritto chiaro in quarta di copertina che questo non è un manifesto politico. Volevo fare un “punto nave” su questo big bang della storia. La parte biografica c’è perché, nei momenti drammatici, l’essere umano pensa a chi è, da dove viene. Noi amministratori siamo identificati come persone fredde. Non è così».
Lei ha mai pianto in pandemia?
«Certo. All’inizio, è stato tragico perché avevamo tutti paura di morire. Nessuno aveva le istruzioni per l’uso. Quel 21 febbraio 2020, quando mi hanno detto del primo caso di Covid a Vo’ Euganeo, mi sono sentito come se entrassi in guerra. Era il momento di assumersi le responsabilità e io ho preso subito decisioni impopolari. Ma lì ti sostiene l’adrenalina. È come mi diceva mio nonno che ha fatto la guerra: il trauma lo avverti quando ci ripensi a mente fredda».
Nonno Enrico, classe 1896. È lui che l’ha convinta che «solo i pessimisti non hanno fortuna».
«Era nato in Brasile da contadini veneti. Da piccolo si ustionò in un incendio, lo curarono con le foglie di banano. Torna in Italia, finisce al fronte, i suoi racconti erano pieni di mutilazioni volontarie pur di tornare a casa. Poi, emigra a New York, ma era il 1929, in piena crisi. Va a Little Italy, si siede sul marciapiede e piange. Arriva un bimbo, gli offre una mela ed era del suo paesino, Codognè. È una storia da brividi».
Lei ebbe la prima tuta da meccanico a sei anni.
«Papà aveva un’officina. Noi bambini lavoravamo tutti: lavoretti, ma era un modo di partecipare alla vita della famiglia. Fu bello: con la meccanica, ti alleni a fare l’analisi logica, parti dal sintomo per arrivare alla diagnosi».
Che bambino è stato?
«Ho imparato l’italiano a scuola. Io parlo italiano, penso in Veneto. Ero un bimbo che stava sempre fra gli adulti. Forse per questo avevo qualche problema coi coetanei, sono stato anche bullizzato. Ero l’oggetto di scherno, pieno di lentiggini. Venivo pure pestato. Le prendevo e non reagivo. Non sono mai stato un eroe di prestanza fisica. Da bambino, mi è pesato. Non frequentavo tanti coetanei».
L’effetto del Covid
L’emergenza che resterà è quella sociale: una parte della comunità sarà insofferente a ogni regola
Com’è che il bimbo bullizzato diventa Pr di discoteche?
«Venivo dal letargo sociale, non uscivo mai la sera: fu per business. M’inventai i volantini; affinai tecniche di marketing; ci ho pagato gli studi».
La politica come arriva?
«Per caso, alle elezioni comunali, ma ho sentito come se la comunità si aspettasse che noi ragazzi, laureandoci, riscattassimo il divario fra il popolo e gli altri. Quando, da piccolo, accompagnavo papà a fare le revisioni delle auto, stavamo in fila per ore e ore, poi l’ingegnere, a un certo punto, diceva “per oggi basta” e i meccanici con le mani sporche di grasso non avevano diritto di parola».
Nel libro, cita Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi e mai Umberto Bossi.
«Non ho citato contemporanei. Le ho detto che non è un libro politico».
Così, però, Matteo Salvini sembra inesistente nella sua vita.
«Con lui ho un ottimo rapporto. Ha preso un partito al tre per cento e l’ha portato su, oggi al 18. Ha toccato punte più alte, ma la politica è discese e salite».
Il libro non è ancora uscito e qualcuno ha già scritto che «traccia la terza via fra l’europeista draghiano Giancarlo Giorgetti e il sovranista non draghiano Matteo Salvini».
«Varrebbe la pena concentrarsi meno sul dito e più sulla luna. L’esperienza da amministratore in pandemia mi dice che non abbiamo metabolizzato alcuna riflessione di quei mesi: l’emergenza che resterà è quella sociale, di cui non si parla, con conflitti nuovi e parte della comunità insofferente a ogni regola».
Al Quirinale, preferirebbe Draghi e il semipresidenzialismo di fatto come Giorgetti o se Draghi va al Colle si va ad elezioni come dice Salvini?
«È presto per capire la situazione. E nessuno valuta che Draghi in votazione apre due scenari: che venga eletto e allora si va alla sua domanda e decide il Parlamento; ma se non viene eletto dalla sua maggioranza siamo al cortocircuito».
Nel titolo, c’è l’autonomia, votata dai veneti col Referendum del 2017, ma ferma.
«Il Covid ha dimostrato che l’autonomia nella Sanità ci ha consentito di limitare i danni. Qui provo a spiegare che l’autonomia delle Regioni non è egoismo dei ricchi».
Scrive che soffre d’insonnia. A cosa pensa la notte?
«Alle cose da fare, penso da che parte iniziare a smontare il motore».