La Stampa, 18 novembre 2021
Intervista a Zerocalcare
In Strappare lungo i bordi, la serie animata di Netflix prodotta da Movimenti Production con Bao Publishing, Zerocalcare non si limita a raccontare la sua storia: riesce a tenere insieme i vari momenti, a unire i generi, a parlare di qualunque cosa senza essere banale o morboso. È divertente, ironico, preciso. Ci sono alcuni dei personaggi più famosi dei suoi fumetti, e c’è lo stesso linguaggio chiaro e immediato. «A volte – dice il fumettista, 37 anni – voglio raccontare le mie storie con un libro, altre con un cartone. Sono due cose diverse, ma difficili da separare. Strappare lungo i bordi è l’insieme delle mie idee e del lavoro di gruppo».
L’Armadillo di questa serie è decisamente più cattivo.
«Sì, è vero. Ho una coscienza piuttosto meschina. Poi, in questo caso, c’è anche Valerio Mastandrea: aggiunge quello che vuole ed è profondamente libero. La personalità che emerge è una via di mezzo tra Valerio e l’Armadillo. E Valerio, alla fine, è davvero il mio Armadillo, la mia coscienza».
Mastandrea dice che lei ha cambiato la narrazione delle periferie.
«Mi sembra eccessivo, onestamente. Spesso la periferia viene raccontata in un certo modo: da una parte ci sono i luoghi comuni e dall’altra c’è questa idea romantica degli ultimi. Le periferie, in realtà, sono luoghi complessi. Dentro c’è di tutto. C’è il criminale, ma c’è pure il ragazzo che studia per laurearsi».
Abbiamo paura dell’altro, di chi non è come noi?
«Ma chi è, poi, questo altro? In periferia abitano le persone normali con i loro problemi e le loro difficoltà. Non basta mettersi nei panni di qualcuno: bisogna mettersi nei panni di tutti».
Anche davanti alle grandi crisi, come quella al confine tra Polonia e Bielorussia, prendere una posizione netta sembra complicato.
«Sono questioni molto diverse. Spesso c’è una difficoltà nel sentire e nel riconoscere la sofferenza altrui perché sono fenomeni lontani. E il racconto dei media generalisti non riesce a creare dei punti di contatto. Poi ci sono vicende più intime, più vicine. Non riusciamo a vedere il dolore delle persone che conosciamo. Siamo concentrati sui nostri problemi, e non siamo in grado di notare le difficoltà degli altri».
In Strappare lungo i bordi si parla di rimorsi.
«Perché le cose più interessanti sono proprio queste: le contraddizioni e gli aspetti più oscuri».
Nella colonna sonora, con Giancane, c’è anche Tiziano Ferro.
«Lo rispetto moltissimo. Io sono cresciuto ascoltando gruppi punk, che rappresentano una nicchia. Le persone, in realtà, ascoltano cantanti come Tiziano Ferro. Ho sempre voluto inserirlo in un mio cartone o in un mio fumetto».
Per qualcuno lei è l’ultimo intellettuale.
«Non sono né l’ultimo né il penultimo. Anzi, non sono proprio un intellettuale. Gli intellettuali devono trovare un punto di vista originale; devono raccontare il presente, quello che ci succede, in un modo diverso».
Con Kobane Calling lei ha fatto proprio questo.
«Io non parlo delle cose che non conosco. Per raccontare la questione curda sono partito, ho raccolto le testimonianze delle persone e le ho messe insieme. È stato un lavoro di osservazione».
È sempre incerto sul suo futuro?
«Ho un po’ più di sicurezze, sì. Ho comprato casa e ho raggiunto una certa stabilità. Ma ho ancora mille dubbi. Tutto, secondo me, può finire da un momento all’altro».
Quanto sono importanti, per lei, le serie tv?
«Fanno parte della mia giornata: le guardo mentre mangio, mentre lavoro, mentre lavo i piatti. I cartoni animati giapponesi sono stati la mia educazione sentimentale; li guardavo da bambino, su Italia1 e sui canali regionali. Evangelion, forse, è stato uno dei pochi anime d’autore che ho visto subito».
Ieri la serie su Netflix, il 25 novembre il nuovo libro ("Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia”, Bao Publishing). Si sente mai stanco?
«Mi sento combattuto. In alcuni momenti mi sento vecchio, e accetto qualunque cosa senza fare problemi; in altri, invece, mi sento giovane. Dipende. Anche quando incontro i miei lettori solo a volte mi sembra di parlare con i miei coetanei».
Oggi si ascoltano altri gruppi, come i Måneskin, e si vedono altre cose.
«Ma non sono i Måneskin o la musica che si ascolta a fare la differenza. Secondo me i ragazzi, oggi, sono più svegli e pratici. Noi siamo cresciuti con altri modelli, con un’idea lineare di vita e di aspettative. Questi ragazzi, invece, sono già pronti al peggio».
Chi racconta la propria vita impara a conoscersi meglio?
«Secondo me, è l’esatto contrario. Quando racconti la tua storia finisci sempre per addolcirla, anche se non vuoi. Certo, parlarne può essere un aiuto. Ma difficilmente può essere terapeutico». —