La Stampa, 18 novembre 2021
Scagionati i due condannati per la morte di Malcolm X
Al numero 3940 di Broadway, la sagoma della sala da ballo Audobon nasconde, nel traffico di novembre, tutte le storie del suo passato. Voluta nel 1912, come teatro da 2500 posti, dal produttore William Fox, l’Audobon ospitava al secondo piano fino a duecento ballerini, a volteggiare nel two-steps e fox trot. Fu poi varietà, cinema, sede di focosi congressi del sindacato. Oggi è inglobata, tra 165th Street e Harlem, in centro biotecnologico della Columbia University, e i ricercatori nerd alzano appena lo sguardo verso il portone, sede dello Shabazz Center, museo in memoria di Malcolm X, leader dei diritti civili afroamericani, poi chiamato el-Hajj Malik el-Shabazz.
All’Audobon, il 21 febbraio del 1965, durante un comizio, Malcolm X venne crivellato di rivoltellate, a 39 anni, davanti alla folla, la moglie e i figli piccoli terrorizzati, da tre killer, subito dileguati. Vennero condannati per l’assassinio tre militanti della Nazione dell’Islam, setta islamica cui Malcolm X aveva aderito in carcere, per poi rompere con il fondatore Elijah Muhammad, disilluso dal suo fosco nazionalismo.
Oggi due degli imputati di allora, Norman 3X Butler e Thomas 15X Johnson, sono stati scagionati dal procuratore capo di Manhattan, Cyrus Vance jr, per non aver commesso il fatto. Butler, che adottò poi il nome di Muhammad Aziz, ha 83 anni, di cui 20 trascorsi in penitenziari di massima sicurezza all’epoca della repressione razzista contro le Black Panthers culminata nella strage di Attica del 1971, 43 morti. Johnson, che aveva scelto come nome Khalil Islam, è rimasto, senza colpe, in galera fino al 1987, per 22 anni, morendo nel 2009. I due sono stati, riconosce tardivamente la magistratura, vittime di un complotto tra Fbi, polizia e Nazione dell’Islam, gelosa che Malcolm X fosse assurto a leader di fama internazionale, convinto dal pellegrinaggio alla Mecca ad abbandonare l’idea che i bianchi fossero “diavoli” e disposto a dialogare con il leader moderato dei diritti umani, reverendo King.
Il terzo condannato, reo confesso che provò, invano, a scagionare gli innocenti Butler e Johnson, era Talmadge Hayer, poi chiamato Mujahid Abdul Halim, iscritto alla comunità di Newark, in New Jersey, che odiava Malcolm X come «traditore». La magistratura ritiene adesso che Hayer-Halim, in combutta con un altro nazionalista di Newark, William Bradley, ex marine, picchiatore ed esperto di armi, abbia ucciso Malcolm X, mentre alla Sala Audobon si aggiravano agenti provocatori del Federal Bureau of Investigation e del Police Department. «Con profondo dolore» – i due innocenti avevano rispettivamente sei e tre figli cresciuti senza padre – il procuratore Vance riconosce che le testimonianze vennero truccate, un centralinista della Audobon era con Butler al telefono, a casa, ben lontano dal luogo del delitto, altri testi di difesa non vennero convocati, Bradley, che a Newark in strada era indicato come il vero killer di Malcolm X, non fu mai interrogato.
Edgar Hoover, onnipotente capo dell’Fbi dal 1935 fino alla morte, nel 1972, voleva reprimere il movimento nero a ogni costo, per anni intercettò e molestò M.L. King, fece strage di Pantere Nere e considerava il carisma di Malcolm X pernicioso, mentre gli Stati Uniti erano sospesi tra guerra in Vietnam e riforme dei presidenti Kennedy e Johnson. Che Malcolm X cadesse per mano di suoi sodali, neri e militanti come lui, non di un razzista bianco come accadrà a King nel 1968, era per Hoover un perfetto complotto, i bianchi avrebbero detto “roba loro…”, nei neri non si sarebbe destata un’ondata di protesta.
A far riaprire l’inchiesta di Vance un magnifico documentario, andato in onda su Netflix a cura di Abdur-Rahman Muhammad, che in stringenti sequenze espone la trama Fbi, la complicità dei pubblici ministeri, l’omertà della Nazione Islam, costata la morte di Malcolm X e la distruzione della vita degli imputati e delle loro famiglie. A lungo attivisti, reporter e documentaristi avevano provato a scagionare gli accusati, infine ci son riusciti, troppo tardi per i destini stroncati, in tempo perché almeno la storia ne prenda atto. Quando si ragiona di razzismo insito nel passato degli Stati Uniti, a scuola e suoi media, dunque non si cade affatto – come qualche parruccone, in Europa e negli Usa, sussume – nel corrivo “politicamente corretto”, si espone la verità, che oggi, nel via vai al 3940 di Broadway, Audobon Ballroom, riappare ineludibile, come in quel febbraio di fuoco e menzogne del 1965. —